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 2025  agosto 03 Domenica calendario

Intervista a Peppe Servillo

Non mi sento ambasciatore, ma testimone: gli ambasciatori alla fine corrono per sé stessi, vogliono sentirsi i primi; a me piace solo essere parte di un qualcosa di più grande». Sottinteso: la tradizione musicale di Napoli. Quella che Peppe Servillo – classe 1960, jazzista e frontman degli Avion Travel – porta in concerto inNapulitanata, uno spettacolo con Cristiano Califano alla chitarra in cui li omaggia tutti, da Raffaele Viviani, primo dopoguerra, a Renato Carosone. E che è appena passato per un posto speciale: Agerola, Costiera Amalfitana, a pochi chilometri dalla casa madre, una sorta di “balcone naturale” sulla costiera amalfitana, per il festival Sui sentieri degli dei (prosegue fino a fine mese, attesi tra gli altri La Rappresentante di Lista, Mr. Rain e Fausto Leali). «Cantare a questo pubblico, di provincia, è diverso», dice Servillo. «Ha una memoria che ricorda bene le musiche che recupero nel concerto,la tiene viva».Anche lei è uomo di provincia.«Sono cresciuto a Caserta, un posto piccolo, ai confini. E poi per lavoro mi sono trasferito a Roma, con gli Avion Travel. Ho sempre visto Napoli da vicinissimo, ma comunque da fuori: la mia grande mela, un sogno, l’ambizione, perfino la paura. Ma i suoi artisti con cui ho lavorato, Enzo Avitabile su tutti, mi hanno insegnato tanto».La napoletanità che cita nel titolo esiste?«Un’identità c’è, al di là degli stereotipi. Ed è un’identità aperta, in movimento, in linea con la città accogliente, a livello umano, che è sempre stata. Certo, ha sofferto tanto, anche solo il fatto che una volta fosse una capitale e poi non lo è stata più. Ma resta la capitale, questo sì, della cultura e della socialità».Negli ultimi anni si è parlato di una sua rinascita artistica. Ci crede?«No. Se il contrario di “rinascita” è “decadenza”, è sempre stata viva e in salute. Lo dimostra questo spettacolo, dove omaggio oltre un secolo di canzone, che va dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Attraverso decine di trasformazioni, ci sono brani scritti da poeti, testi spesso intensi. Ma il filo rosso non viene mai meno.Cambia semmai la forma: le arti a Napoli sono imparentate, un tutt’uno. Pensi, a un certo punto il teatro si era “trasferito” nella musica perché le tasse sull’attività teatrale erano alte: ne sarebbe nato un nuovo genere».È difficile calarsi in brani di cent’anni fa?«A volte sono talmente attuali da parlare da sé. Io sono un’interprete, un mestiere che ho imparato recitando a teatro con mio fratello Toni (Servillo, ndr ).Ed è un privilegio: come un attore, devo prendere le misure, portare le canzoni metà tra il mio mondo e l’originale, senza tradirle».C’è un’età dell’oro della musica napoletana?«Fine Ottocento, la città ferita. Maanche i nostri anni Settanta: Napoli Centrale, Edoardo Bennato, Pino Daniele. Parliamo di una canzone di rivolta, che non è passata: si dice spesso che gli artisti non raccontino più il sociale, ma le assicuro che a Napoli lo fanno, eccome. C’è sempre spirito ribelle».Cos’ha di diverso la nuova generazione?«Sono più internazionali. La Niña, che ha appena vinto la Targa Tenco per il miglior album in dialetto, èun’artista straordinaria in questo senso. E i giovanissimi, in generale, hanno riscoperto la musica napoletana: i pregiudizi non ci sono neanche più, credo, anche fuori di qui».Per i nuovi, però, è più difficile emergere?«Senz’altro. Sono un’autodidatta, le scelte di vita mi hanno portato a non studiare. Non dico sia stato giusto, ma ho imparato nelle Feste dell’Unità, in piazza, dovunque. Ora questa dimensione e i suoi spazi si sono persi, ma il pubblico per primo, vedo, ne ha voglia.Bisognerebbe ripartire da lì».Sui sentieri degli dei peraltro è un festival a misura d’uomo: un migliaio di spettatori, un posto intimo e suggestivo. Ma fuori ha vinto il gigantismo, gli stadi.«Non ho niente contro di loro, ma preferisco i concerti piccoli, che portano l’artista alla gente. Nei grandi, è la gente che serve all’artista. Io ho un carattere che si adatta meglio al contrario».Che consiglio dà, quindi, a un giovane musicista?«Di avere coraggio, lo stesso che ho dovuto imparare io. E se fa jazz, diviaggiare all’estero, perché l’ambiente qui è un po’ chiuso. Ma la verità è che l’Italia non è un paese per giovani: dagli anni Novanta, che con gli Avion Travel ho vissuto in pieno, è germogliato il conservatorismo. La colpa è di politica e tv, che hanno promosso l’omologazione. Prima la stranezza aveva più spazio».A proposito: nel 2000, sempre con gli Avion Travel, vinse Sanremo con “Sentimento”. Un bis di quel traguardo sarebbe possibile oggi?«Non credo. Sono passati 25 anni, è come se ne fossero trascorsi il doppio. Fu una sorpresa anche per noi allora: era un pezzo che nel ritornello non aveva parole, un vero cortocircuito. Conquistò orchestra, critica e pubblico, era sia antico e sia moderno. Ecco, oggi la modernità è scaduta: è per lo più istillata dall’altro, come forma di omologazione; non ne vale la pena».Sta lavorando a nuove canzoni?«Solo per altri. Di mio, amo le letture musicate. L’ultima, che uscirà tra poco, èPierino e il lupo.Il bello del mestiere dell’interprete è che non finisce mai».