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 2025  agosto 03 Domenica calendario

Intervista a Loris Mazzetti. Parla di Enzo Biagi


Aveva ventiquattro anni, un cappotto troppo leggero, un nome falso e un incarico importante: raccontare la Resistenza. Per compiere quell’impresa Enzo Biagi non imbracciò un fucile, ma portò con sé una macchina per scrivere, misurandosi su un fronte più sottile, quello delle parole. I 14 mesi è il diario di quell’attraversamento, tra staffette, tipografie clandestine e notti in cui si combatteva anche per restare umani. Quel libro è tornato in edizione rimpolpata, riedito da Chiarelettere, sempre curato da Loris Mazzetti che di Biagi è stato produttore televisivo, sodale e custode. È importante per capire cosa resta, e cosa dovremmo tornare a leggere, di quella parentesi clandestina da cui tutto ha avuto inizio. «Enzo ha sempre detto che è stato il periodo più bello della sua vita», sorride Mazzetti. «Lì si è formato come uomo. E le persone a cui è rimasto più affezionato per tutta la vita sono stati i ragazzi che hanno condiviso l’esperienza con lui».Però non era nato antifascista.«No, anzi. Aveva uno zio materno che aveva fatto la marcia su Roma ed era considerato il fascista di riferimento per la zona di Pianaccio. Ma non era un picchiatore, né uno che denunciava. Lo ammazzarono i partigiani quando Enzo era uno di loro. E poi c’era un cugino, sempre materno, addirittura sottosegretario nel governo di Mussolini. Anche il papà di Enzo, che morì nel 1942, era capofabbricato».Che cosa spinse Biagi a cambiare direzione?«L’invasione della Polonia da parte dei nazisti. Le truppe tedesche che attraversavano l’Arco di Trionfo a Parigi. Su tutto, la censura contro la cultura. Non poter più vedere il cinema francese che tanto amava, assistere alle scene dei roghi dei libri dei suoi autori americani preferiti fu per lui qualcosa di insopportabile».Si arruolò in Giustizia e Libertà a inizio ‘44. Che ruolo aveva all’interno della brigata?«All’epoca i tedeschi erano soliti affiggere cartelli con su scritto “Achtung! Banditen!”, dipingendo i partigiani come briganti e razziatori. Enzo sapeva che le cose non stavano così e sentì l’esigenza di raccontarlo alla popolazione. Fondò il giornale Patrioti, che andava a stampare a Porretta Terme, in una tipografia clandestina. Durò solo tre numeri, ma sufficienti a cambiare la percezione che le persone comuni avevano dei partigiani».Qual era il suo nome di battaglia?«Sembra incredibile, ma con tutte le chiacchierate che abbiamo fatto non gliel’ho mai chiesto. L’ho scoperto solo dopo la sua morte. Glielo affibbiò il comandante, capitan Pietro, il giorno in cui lo accolse nella brigata. “Finalmente sei arrivato. Ti aspettavamo, giornalista”. D’altronde, con quale soprannome poteva fare la Resistenza uno come Biagi, se non “il giornalista”?».Difficile immaginarlo in azioni armate.«Assicurava di non aver mai sparato un colpo, ma certo intorno a lui vennero uccisi in tanti, compagni compresi. Dopo Marzabotto e le stragi di Caberna e Ronchidoso, la brigata arrestò sette tedeschi. Lui e l’amico Checco Berti fecero il possibile per salvarli, ma prevalse la linea della fucilazione».Quella è una delle pagine più toccanti del libro: «Ho negli occhi l’immagine di quei soldati con i piedi nel fango mentre, prima della loro esecuzione, i figli dei contadini, che avevano preso le loro scarpe, saltavano felici, perché a quei tempi le scarpe erano una cosa preziosa».«Nello scrivere aveva una bellezza e una dolcezza uniche. Sarebbe potuto diventare uno dei più grandi scrittori del Novecento. Glielo dicevo sempre: “Enzo, ti ha fottuto il giornalismo."».Nella vita che cosa si è portato dietro di quei 14 mesi?«Tanto, tutto. Quando si trovava di fronte alle difficoltà o alla censura, l’esperienza partigiana lo aiutava a relativizzare. Una volta aprì i giornali e lesse che il ministro delle comunicazioni Cardinale voleva prendere provvedimenti contro di lui. Alzò il telefono e lo chiamò. “Sono un giornalista, mi chiamo Enzo Biagi. Ho letto sul giornale che intende punirmi. Ho avuto a che fare con Hitler e Mussolini, sono stato per 24 ore con la pistola di un tedesco puntata alla tempia, credo che sopravviverò anche ai suoi provvedimenti”. Da quel momento Cardinale divenne il suo più grande sostenitore».Biagi fu anche tra i firmatari del manifesto Russell-Einstein contro l’atomica. Era un pacifista?«Sì. Quando accettò di sottoscriverlo disse: “Sono contro anche a chi fa bum con la bocca"».Oggi che cosa penserebbe di questo mondo in guerra?«Proverebbe pietà per le vittime, tutte, come a suo tempo fece per i morti partigiani e quelli repubblichini. Però non dimenticò mai le responsabilità. Come scrive alla fine del libro: “Col tempo anche l’odio si attenua o si spegne, ma non è possibile fabbricare la storia e la distinzione tra Bene e Male, così come è impossibile formare un’unica categoria di tutti i combattenti. Sarebbe immorale"».—