Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 06 Mercoledì calendario

Almasri, le accuse a Nordio, Mantovano e Piantedosi


Il ministro della Giustizia ha «danneggiato la giustizia» stessa. Il ministro dell’Interno e il sottosegretario con delega all’intelligence hanno aiutato un ricercato internazionale a fuggire. Hanno omesso, tergiversato e infine lasciato libero il generale Osama Almasri ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità. Non solo. L’hanno «riportato lì dove avrebbe potuto continuare a perpetrare condotte criminose analoghe». Omicidi, stupri, torture. È quanto si legge negli atti con cui il Tribunale dei ministri accusa Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano. Scelte errate secondo quanto si legge nelle carte, prese durante una serie di riunioni tenute il 19, 20 e 21 gennaio. Incontri a cui il Guardasigilli non avrebbe partecipato quasi mai. Incontri di cui non è stato stilato alcun verbale e che quindi il tribunale dei ministri ha dovuto ricostruire con informazioni «non del tutto lineari» rese dai vertici dei servizi segreti e delle autorità di sicurezza.
Il Guardasigilli, è scritto negli atti, nell’affaire Almasri «non ha fatto alcunché». Pur avendo «ricevuto le richieste di cooperazione giudiziaria della Corte penale internazionale, pur sapendo che il ricercato era stato arrestato» e che le comunicazioni diplomatiche avevano seguito il giusto corso, «pur supportato dagli uffici tecnici che avevano tempestivamente predisposto una bozza di provvedimento», non si è mosso. È rimasto «inerte». E l’elenco che articola l’accusa di omissione in atti d’ufficio è lungo: «Non rispose al procuratore generale della Corte d’appello, non rispose alle plurime richieste inoltrategli da funzionari della Cpi che sollecitavano consultazioni», dando anzi disposizioni ai suoi funzionari di tacere. E ancora. «Decise di assumere un contegno attendista delle decisioni della Corte d’appello non solo rimanendo inerte in attesa di tale decisione ma convenendo, altresì, in accordo con gli altri vertici istituzioni, sull’opportunità di espellere Almasri laddove fosse stato scarcerato».
Il tribunale dei ministri lo scrive nero su bianco: «Gli atti dovuti e omessi dal Guardasigilli avrebbero dovuto essere compiuti per ragioni di giustizia, per dare corso alla richiesta di cooperazione della Cpi. Ed erano atti qualificati, posto che la legge attribuisce al Ministro della Giustizia una posizione di garante della corretta e tempestiva esecuzione della procedura». Nordio non ha fatto nulla, e «tale inerzia ha determinato un danno all’effettivo esercizio dell’amministrazione della giustizia da parte della Cpi». E il generale non solo è stato liberato, ma gli è stato restituito tutto ciò che la polizia aveva sequestrato.
E, si legge negli atti, «il decreto di espulsione emesso dal ministro Piantedosi, così come la decisione di usare un volo di Stato assunta da Mantovano, hanno consentito ad Almasri di sottrarsi al mandato di arresto della Cpi». Insomma: «Hanno scientemente aiutato il generale a sottrarsi alle ricerche e alle investigazioni della Corte dell’Aja». L’accusa è di favoreggiamento.
Il volo di Stato? Per il tribunale «l’aereo della compagnia Cai è stato utilizzato per una finalità illecita». E la giustificazione delle «ragioni di sicurezza nazionale» ha costituito «una mera copertura formale del fatto che l’aereo sia stato utilizzato e, con ciò, distratto e il carburante necessario impiegato» per favorire la fuga del generale. E negli atti, dove è formulata l’accusa di peculato, è citato un precedente: «L’Argo 16 impiegato per sottrarre alla giustizia dei presunti terroristi ricercati da Israele su richiesta, anche in quella occasione, della Libia allora governata dal colonnello Gheddafi». I ministri e il sottosegretario hanno giustificato le loro scelte per il pericolo paventato dall’intelligence «di ritorsioni ai danni di cittadini italiani ed interessi nazionali in Libia». In particolare per lo stabilimento gestito da Eni e dalla National Oil libica sito a Mellitah». Era stato il direttore dell’Aise, i servizi segreti esterni, Giovanni Caravelli, a spiegare che, dopo l’arresto del generale, «in Libia stava montando una certa agitazione». Di tutte queste cose si era parlato solo il 25 febbraio, vale a dire venti giorni dopo che il ministro Piantedosi aveva smentito in Aula qualsivoglia «forma di pressione indebita assimilabile a minaccia o ricatto da parte di chiunque». E i magistrati sono convinti che, per tutelare cittadini e interessi italiani, non sia stata «in alcun modo vagliata la possibilità di trovare soluzioni alternative» rispetto al rimpatrio.
Nelle carte il nome di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di via Arenula, compare 25 volte. E la sua posizione è complessa. La versione da lei fornita è ritenuta «sotto diversi profili inattendibile» o, peggio, «mendace». Si contraddice. Rivendica di informare immediatamente il ministro, ma non gli sottopone la bozza per la scarcerazione di Almasri. Inoltre, secondo i giudici, si arroga il diritto di tacergli «un elemento tecnico» da valutare come i maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato rappresentato dal volo Cai