La Stampa, 9 agosto 2025
Intervista a Dario Vergassola
La ricorrenza sarebbe importante: 30 anni di interviste impossibili. Ma da buon ligure mugugnoso e provinciale con sindrome dell’impostore, Dario Vergassola preferisce lasciar correre: profilo basso e pedalare. Che significa: tante serate, spettacoli diversi, ma anche sempre un po’ gli stessi che cambiano. Tante frecce all’arco. E su tutte, sempre le famose interviste di cui sopra, in cui si diverte e si è divertito a dissacrare a sorpresa ospiti illustri e togati, nani e ballerine.Sono trent’anni da che ha iniziato le sue interviste «impossibili». Innumerevoli tentativi di imitazione, eppure non stancano mai...«Sul mio profilo Instagram e in generale sul web si possono vedere quelle che feci ai tempi di Zelig: sono del 2000 e non erano le prime. Online si possono confrontare con quelle più recenti, che continuo a fare a Only Fun: tutte virali, le vecchie e le nuove, vanno forte tra i giovanissimi perché uso un linguaggio sempre attuale che apprezzano... Anche se, posso dire?»Prego!«Le più vecchie sono più incisive: prima del politicamente corretto, dicevo cose che oggi non potrei più».Non si limita alle interviste, però. C’è il monologo Storie sconcertanti (oggi al Pieve Ligure Art Festival ) e le serate con Davide Riondino dedicate all’ Iliade.«Storie sconcertanti è una summa delle mie cose, il meglio del meglio (non si butta mai via, si recupera sempre). Racconti, monologhi, canzoni. Ogni volta cambio e metto qualcosa di nuovo. Iliade. Un racconto mediterraneo invece è tutta fatica di Riondino: lui studia mentre io imparo (da lui). Lui uno di quei toscani dalla memoria prodigiosa e onnivora, io una specie di Pierino che non sa, chiede o viene interrogato. Così abbiamo già trattato Odissea e Madame Bovary, prossimamente Bohème».Ma Vergassola chi è?«Uomo da boschi e da riviera. Potrei metterlo sull’insegna di un eventuale stemma araldico. Se lo avessi. Nato e cresciuto a bordo mare (La Spezia), discendo da una famiglia di contadini vista mare: il nonno era di Corniglia e non sapeva nuotare. Siamo portatori di una rudezza che ci arriva dagli antichi liguri che dal mare si aspettavano solo problemi e minacce. Quindi se ne tenevano distanti. “Il mare non è tuo, si muove e non ci puoi piantare niente”, diceva il nonno».Come tutti i liguri, anche lei ha un rapporto ambivalente con quella lingua di terra tra mare e monti, giusto? Tutto sintetizzato nel suo ultimo libro Liguria. Terra di mugugni e di bellezza (Mondadori)?«Sono una serie di favole delle Cinque Terre, alcune vere ma altre no, queste inventate quando ho iniziato ad annoiarmi di quelle vere che stavo scrivendo. È una guida ironico sentimentale. Oggi mi dicono che sia introvabile. Perché non lo ristampano, mi chiedo? Mi chiamano per le presentazioni, ma le copie non ci sono».Sempre lì resta, tra Ventimiglia e Spezia. Anche in questa estate piena di date in posti diversi.«Sarà che negli ultimi anni è capitato che mi affidassero la direzione artistica di alcuni festival di varia umanità, musica, letteratura e teatro, battute mordaci e accordi armonici Albenga d’autore, Fiumi di parole con base nel Levante tra Amelia e Bocca di Magra, Un mare di discorsi, anche questo itinerante, tra Porto Venere, Cinque Terre e Spezia. Fuori regione è invece Pula Letteraria in Sardegna, terra che con la Liguria condivide più di un aspetto».Direttore artistico ma anche intrattenitore.«Il mio compito è spesso quello di dialogare con personaggi anche molto seri, scrittori, politici, scienziati, matematici e filosofi: prima l’intervista vera e propria, poi entro io che sugli stessi temi smitizzo e rendo accessibile il fisico quantistico o l’astronomo, che altrimenti potrebbero spaventare e tenere lontana la gente. Io li metto alla portata di tutti. Un giochino pop che piace».Ma com’è che il quasi contadino Vergassola ha lasciato La Spezia per spingersi a Milano e fare il teatrante?«Lavoravo all’Arsenale, che era l’obiettivo lavorativo di tutti a Spezia. Marinaio di coperta. Però suonicchiavo anche la chitarra, De Gregori e cantautori vari. Ho pure provato a scrivere cose mie, ma non funzionava granché. Però mi sentivo animale da bar, così ho cominciato a buttarla sul ridere. Finché un giorno mi sono fatto forza, ho preso 20 gocce di Lexotan e la mia 127 (a lei 10 gocce) e mi sono diretto verso nord. Io che già Sarzana (a neppure 20 chilometri da Spezia, ndr) era un viaggio infinito. Ho affrontato la pioggia, il freddo, e la nebbia e sono approdato allo Zelig che allora era un baretto con biliardo o poco più. Giancarlo Bozzo mi introduce sul palco, recito le mie stupidaggini da disperato di provincia e vengo catapultato al Festival di Sanscemo, che vinco. Parte del premio era andare ospite al Maurizio Costanzo Show. Ed è lì che svolto. Costanzo è la mia Lourdes, quello che Medjugorje è per Paolo Brosio».Continua con il Lexotan?«L’ho sempre in tasca: solo averlo mi fa star meglio. È con gli antidepressivi che ho smesso. Noi che nasciamo in provincia o in periferia, il disagio, il non sentirci all’altezza, ce lo portiamo sempre un po’ dentro, stiamo a metà tra l’ansia e la depressione. Ma è lì che si annida, anche, l’autoironia: se la si trova e si usa, ci si salva. Scherzi a parte, c’è una cosa che vorrei dire seriamente, ed è diretta soprattutto ai più giovani: se vi sentite in questo modo, parlatene, non tenetelo per voi quel malessere. Rivolgetevi subito a qualcuno, genitore medico insegnante. Se lo si tiene dentro, il disagio rischia di diventare cronico e fa danni irreparabili»In un’intervista disse: “il comico sta all’autoscatto come lo stand up al selfie”. Cosa voleva dire?«Che selfie e autoscatto sono la stessa cosa, cambia solo di poco la tecnologia che hai in mano. Così, comico e stand up: fanno la stessa cosa dandole solo un nome diverso. Ma entrambi parlano di sé con una buona dose di autoironia e di cinismo. Nella comicità è pratica ultradecennale. Un senso della vita e dell’umorismo che ho non poi tanto diverso da quello che pratica, chessò, un Ricky Gervais. Diciamo tutti le stesse cazzate, alla fine». —