La Stampa, 10 agosto 2025
A tavola con henry
L’insalata di anguria e formaggio è finita, il carpaccio di pesce spada pure, gli zampironi fanno l’effetto madeleine di quando eravamo – noi e le zanzare – giovani, e insomma tutto sembra andare per il meglio, a questa cena di fine luglio. Finché faccio l’errore di citare Ottessa Moshfegh, e il gelo che discende sulla tavolata non è né fatto di clima impazzito né di divergenti opinioni sulla prosa dell’autrice di Il mio anno di riposo e oblio. Credevo, lo giuro, non solo di essere in tema ma pure di rendermi utile.
Avevamo parlato di aria condizionata, di un vermentino toscano che fa un’azienda minuscola, pochissime bottiglie introvabili, di matrimoni, di cinema, e del dramma di essere henry.
L’acronimo perfetto
La parola henry l’ha detta per prima l’amica che legge tutte le riviste straniere, l’aveva vista in un articolo sulle vacanze di lusso americane, e abbiamo tutti apprezzato l’acronimo: High Earners Not Rich Yet, gente che guadagna bene ma non è mica ricca – una traduzione più precisa sarebbe «non ancora ricca», ma ci vuole l’ottimismo degli americani per crederci.
Ogni anno ci scopriamo tutti henry in primavera, quando iniziano ad arrivare gli inviti ai banchetti nuziali, che si chiamano così perché una volta erano occasioni per mangiare tanto, poi è arrivata l’epoca dell’abbondanza, il feticismo della primizia alimentare, ed eccoci qui: che un matrimonio è una scocciatura alla quale presentarsi già mangiati, perché nelle giornate feriali di chiunque di noi ci sono primizie assai più prelibate di quelle servite ai pranzi di nozze.
Gli inviti arrivano che ancora non fa così caldo, e quindi le maledizioni si evolvono: gli accidenti che a fine giugno proferisci contro l’ostinazione a sposarsi facendo morire tutti gli invitati di sudore erano, prima degli ultimi giorni, imprecazioni contro il costo dei matrimoni. Si sono mai visti soldi così buttati? Avrò letto un milione di articoli sulle nozze Bezos, e nessuno che mi abbia illuminata su ciò che davvero mi interessava: i ricchi pagano agli invitati l’aereo e l’albergo e tutto l’ambaradan? Spero che il fantastiliardario Bezos non ti costringa, come i nostri amici henry, a fare un mutuo per spostarti e pernottare nella sua destinazione matrimoniale (chi è stato che ha deciso che sposarsi sotto casa non andava più bene? Possiamo trovarlo e comminargli adeguata sanzione?). Almeno Bezos non pretendeva regali, diversamente dai nubendi amici nostri. È mai possibile che, tra tutto, a ogni matrimonio debbano partire a ogni invitata – anche a quelle che, come me, hanno avuto il decoro di non sposarsi – migliaia di euro in cambio d’un pomeriggio sudato a mangiare male?
Già lì percepisco un po’ di rigidità, perché a tavola c’è una coppia che si è sposata l’estate scorsa e si sente messa in mezzo: ci tocca sorbirci tutto il lamento su quanto costi un matrimonio agli sposi, e allora se devono pagare il viaggio a tutti vanno in rovina, e allora ditelo che volete una società in cui si sposino solo i ricchi. Si noti che io qui ancora evito, eroica, di specificare che più che altro vorrei una società in cui si sposano tutti gli henry ma senza invitare gli altri henry. Dico ma no, figuriamoci, sono quelli di quest’anno che hanno esagerato, mica mi sono lamentata del matrimonio vostro, figurarsi, è stata una giornata talmente deliziosa (i due non sanno che ho passato l’autunno a dire a tutti «ma tu lo sai quanto m’è costato andare al matrimonio di quelli, avrebbero dovuto pagarmi loro, hai una figlia di vent’anni, ormai cosa ti sposi a fare, fai la lista di nozze coi servizi di bicchieri, finora hai bevuto a garganella?»). Sorrido: ma parliamo di questo vermentino buonissimo, come l’avete scovato, quanto costa?
Facciamo una breve digressione in tema aria condizionata, l’amica a capotavola è stata a cena a casa d’un famoso psicologo milanese, si mangia senz’aria condizionata. Nel senso che eravate in terrazza, ipotizziamo ottimisti. Macché: all’interno, ma la sala da pranzo è sul lato della facciata del palazzo, protetto dalle belle arti, non si può mettere l’aria condizionata. Specifica la data della cena. Il giorno più caldo del secolo, roba da intiepidire l’insalata di anguria.
Forse era una prova di tenuta dei nervi, forse il padrone di casa stava facendo un esperimento professionale. Interviene il meno diplomatico della tavolata: figuriamoci, sempre stato tirchio, avrà messo uno split in meno per risparmiare.
Atmosfera a rischio
C’è un regista, a tavola, e questa è la mia scusa ufficiale per aver tirato fuori la Moshfegh. Si stava finendo a parlare dei finanziamenti al cinema, l’atmosfera rischiava di rovinarsi, si erano già creati gli schieramenti: da un lato quelli secondo cui i posti di lavoro vanno difesi, dall’altro quelli che dicono sì ma se vostra figlia vuole fare la scenografa non è che io possa mantenerla a vita pagando tasse per produrre film che nessuno vuole vedere, reindirizzatela verso un lavoro vero, non può metter su un lavasecco, che d’estate non se ne trovano di aperti?
Sto per dire della mia rammendatrice, che adesso è chiusa perché ogni estate fa quattro mesi di vacanze, lavora tre ore al giorno, non ha un pos né un registratore di cassa, credo che per il fisco non esista, e per rammendare un cashmere di Prada divorato dalle tarme in primavera mi ha preso centottanta euro. Centottanta euro di buchi senza scontrino, non me ne capacito, non parlo d’altro da mesi, di solito specifico anche: sono trecentocinquantamila lire. Però temo s’offendano: ipotizzare che la loro bambina, quel piccolo genio incompreso della cinematografia, si occupi dei buchi del mio guardaroba.
Quindi, garrula come quelle davvero inopportune, dico: potrebbe fare la romanziera, cioè l’influencer!
Un silenzio ostile
Si crea quel silenzio ostile che ha per sottotesto «ma questa perché l’abbiamo chiamata, facciamo sempre lo stesso errore, neanche fosse ricca e potesse ricambiare invitandoci in barca», e mi sento in dovere di spiegare. Praticamente tutti gli scrittori americani adesso stanno su Substack, la piattaforma delle newsletter, premetto. Quella che legge i giornali stranieri annuisce, dice che sì, l’ha letto sul New York Magazine, ci sono proprio tutti, Molly Jong-Fast e Junot Díaz, Miranda July e Joyce Carol Oates.
A quel punto riprendo la parola per dire sì, però secondo me il modello da seguire è Ottessa. Gli abbonati non stanno mica lì per leggere la sua prosa – per quello ci sono i libri – ma per quella che a Milano chiamerebbero l’esperienza. Insomma: per vedere da vicino una famosa. La Moshfegh ha messo in vendita il suo spazzolino da denti usato, oltre che i vhs che aveva in casa, che non solo ci fai due spicci ma è anche una bella soluzione per il disordine: ho una parete di vhs impolverati che non guarderò mai più, perché non mi è mai venuto in mente di metterli all’asta?
Non c’è cifra
Ottessa ha dato un prezzo alla possibilità di passare una serata con lei, e quattro disgraziate di sue lettrici se la sono comprata, io ormai sono troppo vecchia ma insomma se avessi l’età di vostra figlia ci penserei. Basta scrivere un romanzo con una copertina fotogenica, diventare un po’ famosa, ed ecco lì che puoi farti pagare per tutto, persino per andare ai matrimoni, persino per venire a questa cena. A quel punto il silenzio a tavola è tale che si sentono le voci dalla strada, e siamo al quinto piano. Ci stai dicendo che dovremmo pagarti per sopportare la nostra conversazione?, chiede il più noioso della tavolata.
Penso: non ci sarebbe cifra sufficiente. Non lo dico. Forse mi si legge in faccia, perché mica m’invitano più.
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