La Stampa, 11 agosto 2025
Così Jackie Chan è diventato Jackie Chan
In Enter the Dragon era uno degli stunt atterrati da Bruce Lee e poiché il mitico campione Bruce sarebbe prematuramente scomparso poco dopo, possiamo considerare questo incrocio fulmineo quasi una sorta di passaggio di testimone. Da stunt-guy a uomo di cinema completo, Jackie Chan ha ricevuto a Locarno il Pardo alla carriera; e – introdotto come un «tremendous filmmaker che ha reinventato le regole del gioco, rischiando l’osso del collo per intrattenere il pubblico» – ha reso divertente l’incontro con il direttore Giona Nazzaro mimando da par suo davanti a una platea osannante colpi, piroette e calci.Cominciamo dall’inizio. Lei è un esempio di etica del lavoro: il talento da solo non basta, occorre coltivarlo con sacrificio, con disciplina.«In realtà da piccolo ero pigro, così mio padre mi ha iscritto alla Chinese Academy of Performing Arts di Hong Kong che lì per lì, avevo sei anni mezzo e mi piaceva fare a botte, mi sembrò un bel posto. Così lui è partito per l’Australia e mi sono trovato sottoposto per dieci anni, tanti ne ho trascorsi in quella scuola, a una rigidissima disciplina: sveglia alle 5,30, punizioni fisiche se non osservavi le regole o sbagliavi, estenuanti esercizi di arti marziali. All’epoca molti fuggivano dalla Cina comunista, il mio maestro li accoglieva e c’era un continuo via vai di insegnanti da cui ho appreso le più svariate tecniche di combattimento. La mattina mi fratturavo l’anca e il pomeriggio mi addestravo, un’abitudine a sopportare il dolore che poi nel cinema mi è stata utile».Ha iniziato la sua carriera di stunt a 17 anni.«Sì, ed ero piuttosto bravo tanto che sono finito sul set di Bruce Lee il quale, dopo avermi colpito e fatto volare contro una vetrata per ben quattro volte, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha chiesto: “Tutto ok?”. La sua scomparsa è stata un grande colpo per i suoi fan e per quel genere di cinema di cui era star assoluta. Tutti volevano un nuovo Bruce, ma io non ero lui, ero l’opposto. Non avevo la sua incredibile velocità, le mie pratiche di combattimento erano diverse; e soprattutto non volevo essere una sua copia, volevo essere me stesso. Ho lavorato duro per conquistare la mia autonomia, ma alla fine ce l’ho fatta. Da The Young Master in poi ho potuto scrivere, dirigere, coreografare, montare i miei film come volevo. In Usa girano le scene d’azione pum pam e via: ma così non funziona. Per creare interesse, una sceneggiatura deve spiegare le motivazioni di chi combatte; e perché le sequenze di lotta non siano noiose devono avere un ritmo musicale. Io le coreografo a passo di danza e questo richiede mesi di prove e lavorazione».Come è diventato regista?«Quando ero stuntman, utilizzavo le pause mettendomi a disposizione gratis del tecnico delle luci, dell’operatore, dell’uomo del dolly. È così che ho appreso quanto c’era da sapere: per avere il controllo del set devi sapere tutto».Sa anche cantare: quando è nata questa passione?«Ovunque andassi, durante le mie apparizioni in tv, mi si chiedeva di mostrare qualche mossa. Alla lunga, non ne potevo più. Mi sono detto: devo trovare un’alternativa, imparo a cantare, è più facile».L’hanno paragonata a Chaplin e a Keaton per la sua capacita di bilanciare azione e comicità.«Per la verità mi piacerebbe essere visto come il Robert De Niro asiatico (ride), ma probabilmente di Chaplin e Keaton condivido il perfezionismo: il pubblico non sa perché un film è buono, ma sa quando è buono. Per girare 3’ di scene di arti marziali lavoro fino a sei mesi, non guardo ai costi, ma al risultato. Per questo non amo Hollywood, per loro è solo questione di business».Tuttavia “Rush Hour” con il suo enorme successo ha costituito un momento chiave.«Il merito è del regista Brett Ratner che mi ha affidato ideazione, coreografia e direzione delle scene action. È stato come costruire un ponte fra Cina e Usa: incontrando Spielberg per cui ho una venerazione mi stavo per prostrare, ma lui mi ha detto: “Potrei avere un autografo per mio figlio?"».