La Stampa, 11 agosto 2025
1° luglio 1982, i Rolling Stones a Torino
L’eco degli autoriduttori e dei processi sommari ad artisti noti, all’inizio degli Anni ’80, non si era del tutto spenta persino all’estero, se l’Italia era ancora sotto osservazione alla vigilia dell’arrivo dei Rolling Stones a Torino – il primo dal lontano ‘67 – per quello che si sarebbe rivelato come il concerto più pazzo del mondo. Legato a doppio filo con la finalissima dei Mondiali di Calcio e con la vittoria dell’Italia (sembra un secolo, non ci siamo più abituati), rimane nella memoria collettiva. Era l’11 luglio 1982, una domenica. La sera dopo, poche ore prima del secondo concerto, a «Mixer speciale Mundial» di Gianni Minà, Bill Graham manager della band aveva fatto colpo: «Mi hanno detto di non venire in Italia perché è un paese pericoloso». A cacciare i dolorosi fantasmi avevano ormai pensato Mick Jagger e soci, al Comunale, nel pomeriggio davanti a 60 mila, ore prima che al Bernabéu di Madrid, sotto la spinta di Bearzot, Zoff Scirea Pablito Rossi e a tutti gli altri eroi della Nazionale, ficcassero 3 sberloni alla Germania portandosi a casa la Coppa. Si disse che la data avesse fissato la fine dei famigerati anni di piombo, anche se la storia mostra che non era purtroppo vero.Comunque, la normalità tornò. La band più ribelle del rock di quella stagione acconsentì ad esibirsi per il primo concerto nel pomeriggio, robe da Take That nei decenni successivi. D’altronde, bastava pagare, e i due concerti di Torino più il terzo di Napoli costarono un milione di dollari, come mi ha appena rivelato Luciano Casadei (il famoso «boss del rock comunista») che mise in piedi l’operazione da Torino, appoggiandosi a David Zard per l’Italia e al leggendario Bill Graham negli Stati Uniti.Tanto gli Stones la fama di maledetti se l’erano conquistata da tempo. Il loro rock sporco e sfrontato, intessuto di blues e dallo sfacciato dondolio del r’n’r, faceva da contraltare alle più sorvegliate idee dei Beatles, anche se poi la vita di entrambe le band era tutta un coincidere di arte e vita spericolata. Ma i movimenti, gli atteggiamenti, il fraseggio, i comportamenti fuori dalle righe, avevano fatto nominare sul campo gli Stones re di un’epoca che disdegnava la virtù e si ammantava di provocazioni. Sesso droga e rock’n’roll. File di bionde eteree e maledette, ragazze laureate e di buona famiglia, Anita e Marianne, scendevano nell’agone per conquistare il proprio Stone, era una processione.Eppure, a rivedere le immagini dell’intervista con Gianni Minà, il viso del quasi trentanovenne Mick pareva maledettamente angelico («Cosa facciamo prima dei concerti? C’è chi fa l’amore e chi gioca a ping pong»). Charlie Watts sembrava una statua di cera e ci si ricorda che si dava da fare con l’eroina pure lui, Keith sfuggente fumava Marlboro dopo Marlboro, Ronnie Wood e Bill Wyman erano normalmente brutti e così son rimasti ma quel pomeriggio la band filò dritta sulla scaletta che portava in giro l’album Tattoo You. Nella registrazione di YouTube la musica suona sì male, ma sembra più ricca di quel che abbiamo ascoltato di recente, i pezzi sono più smaglianti: Start me Up da quest’ultimo disco diventerà l’avvio dei concerti. Si concentrano molto sugli ultimi 3 album. Piazzano Beast of Burden e titoli di gran successo come Let’s Spend the Night Together, la sfiziosa Black Limousine, partendo da Under My Thumb e naturalmente terminando con Satisfaction.Però il fulcro dell’interesse resta calcistico, anche intorno agli Stones. Mick indossa la maglia numero 20 di Paolo Rossi, e a metà serata dirà al popolo: «State tranquilli, l’Italia vincerà: 3 a 1». Sulla profezia, avverata, confiderà poi a Minà: «Me l’ha detto una veggente, tempo fa». Vabbé. Tra l’altro, nella bolgia del programma oltre a Renzo Arbore c’è anche Ugo Tognazzi, che si cimenta in un non-sense: «Uno di voi cinque ha passato un intero pomeriggio a casa mia ma nella sala biliardo. Volevo salutarlo ma non l’ho mai visto e non so chi sia».Sulla nascita di quei tre concerti – domenica 11, lunedì 12 a Torino, il 17 al San Paolo di Napoli – bisogna ascoltare la storia dal vero primo motore immobile dell’operazione, Luciano Casadei. Promoter torinese per conto di Radioflash, area Pci, un tipino pepato ancora oggi, si ricorda tutto: «Era venuto a cantare a Torino Lucio Dalla – 9 mila spettatori e 6 mila di agibilità, ormai si può dire –, ed era arrivato con il suo manager Renzo Cremonini, che mi disse: “Ti andrebbe di organizzare a Torino un concerto dei Rolling Stones? Ti faccio avere il contatto"». Due mesi dopo Cremonini (non parente di) chiama Casadei e gli dice che il contatto è il celebre Bill Graham. All’epoca da noi i tre «padroni della musica» erano Franco Mamone, Francesco Sanavio e David Zard. Casadei pensa che Zard sia il più adatto e lo chiama. Zard si fa vivo presto: «Si può, ma bisogna fare 3 date». Si vedono, si parlano, il costo è di 1.200.000 dollari ma ci sarà uno sconto. Per la terza data, Milano era ancora tagliata fuori per la storia degli autoriduttori e per i processi agli artisti, Firenze salta per zizzania fra Pci e Psi nella regione e non se ne fa nulla. Spunta Napoli.Il fatto è che la prevendita torinese parte bene ma poi rallenta. Si arriva a un venduto di 60 mila per la domenica e 30 mila per il lunedì (al mixer assisterà Umberto Agnelli, lo sponsor era la Piaggio). Napoli 50 mila. «Un po’ di soldi ce li abbiamo rimessi», confessa Casadei. Quanto, non me lo dice. —