Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 11 Lunedì calendario

L’Ai, tra stipendi e licenziamenti impressionanti


Torino
L’uomo che ha rifiutato un’offerta da 1,5 miliardi di euro non è una star dell’Nba né un campione del calcio saudita. Ha i capelli lunghi, un ciuffo spettinato, una t-shirt. Si chiama Andrew Tulloch, è australiano e, dopo un passato da ricercatore in OpenAi, è stato tra i fondatori della start-up Thinking Machines Lab. Tulloch, che ha avuto la forza di dire no alla mega-proposta d’assunzione di Mark Zuckerberg, è il simbolo di una nuova aristocrazia del lavoro: né attori, né atleti, né influencer. Solo menti che addestrano l’intelligenza artificiale. Gli unici, oggi, in grado di muovere davvero un mercato in crisi.
Mentre i colossi del digitale sfoltiscono gli organici, pochi eletti firmano contratti da fuoriclasse. Nonostante utili in crescita e titoli in rialzo, il contatore dei licenziamenti nel tech corre: 80.845 posti cancellati da gennaio, quasi mezzo milione negli ultimi tre anni. È come se lo tsunami dell’Ai – per anni una profezia – fosse già arrivato. Anche se gli economisti, su questo fronte, restano divisi.
A guidare la trasformazione è, come sempre, la Silicon Valley. Da inizio 2025, secondo Layoffs.fyi, 176 aziende tech hanno ridotto i propri organici. Non solo startup in difficoltà, ma anche giganti come Amazon, Microsoft, TikTok, Intel, Atlassian, Lenovo, Meta. Gli esuberi toccano ogni comparto: e-commerce, software, mobilità, fintech. Amazon taglia nonostante profitti record. Microsoft smantella team, Intel blocca i chip. Persino i portali per cercare lavoro, Indeed e Glassdoor, licenziano centinaia di dipendenti. Paradosso perfetto: cresce la domanda di lavoro, ma chi aiuta a trovarlo scompare.
Secondo Business Insider, le cause si intrecciano: ridimensionamento post-pandemia, stretta degli investimenti dei venture capital, liquidità in calo. Ma soprattutto l’automazione. Molte funzioni – scrive il sito – sono passate all’intelligenza artificiale generativa. Risultato: un giro di vite brutale anche su profili finora considerati intoccabili.
Una visione che Marco Ogliengo, fondatore della start-up Jet Hr, non condivide. «Le risorse che entrano con stipendi altissimi sono strategiche e non rimpiazzano migliaia di semplici addetti», spiega. «Oggi può essere ancora non immediato leggerla come la vedo io, ma credo che l’Ai nel medio e lungo termine genererà più assunzioni, perché aumenta la competitività e la crescita delle imprese, e questo auspico possa essere ancora più vero per Paesi come il nostro, dove il tessuto preponderante è fatto di pmi». Certo, ammette, «alcune professioni andranno gradualmente a scomparire. È l’effetto del progresso. Agli Stati il compito di governare queste transizioni senza bloccare l’innovazione».
Più che i governi, però, al momento si muovono i soliti noti. Mentre il settore tira la cinghia, per esempio, Meta investe. Zuckerberg sta puntando sulla “superintelligenza": decine di miliardi in infrastrutture, chip, cervelli. L’azienda ha arruolato una cinquantina di scienziati per un laboratorio segreto, con bonus da capogiro. La scorsa settimana è stato annunciato che Shengjia Zhao, co-creatore di ChatGpt, sarà il nuovo chief Ai scientist. Risponderà ad Alexandr Wang, enfant prodige della matematica. Il Financial Times li ha soprannominati i «galácticos» dell’Ai, come il Real Madrid di Florentino Pérez. Al team da sogno sfuggono solo poche pedine. Oltre a Tulloch, anche Mira Murati – ex partner di Sam Altman – avrebbe rifiutato un’acquisizione miliardaria della sua azienda. Da Meta smentiscono: «Voci ridicole». Ma la guerra per il talento è in pieno svolgimento. «Non servono più 10 mila dipendenti per costruire il prossimo unicorno. Servono 10 teste. Forse anche meno. Stiamo creando una classe dirigente di sempre più ricchi e miliardari, e una massa di disoccupati qualificati», scrive su LinkedIn Lorenzo Asuni, esperto di marketing e sviluppo in ambito tech. Il meccanismo, dal suo punto di vista, è feroce. Non lontano dalla “cura dimagrante” imposta da Elon Musk ai dipendenti pubblici nella sua breve stagione da riformatore al Doge. «Jason Wei e Hyung Won Chung, ex OpenAI, sono stati reclutati con offerte fino a 300 milioni per quattro anni. In 12 mesi – racconta Asuni – Microsoft ha assunto almeno 24 ex ricercatori DeepMind, dai vice president agli specialisti in Ai, tutti con pacchetti multimilionari e stock option».
Nel frattempo, migliaia di profili con esperienza, titoli e competenze si scoprono improvvisamente tagliati fuori. «È il paradosso della scarsità artificiale», sintetizza Asuni. Ma siamo davvero davanti a una rivoluzione? O a una bolla? Antonio Aloisi, giuslavorista e autore del saggio Il tuo capo è un algoritmo, invita alla prudenza: «I numeri della caccia ai talenti sono fin troppo contenuti. Si tratta di processi di acqui-hiring di un manipolo di profili iperspecializzati. Al netto degli ingaggi impressionanti, c’è anche una manifestazione di debolezza. L’Ai generativa fatica a trovare applicazioni di largo consumo realmente profittevoli. Da qui la corsa a testare nuovi gadget e servizi che trasformino una nicchia in next big thing».
«Bisogna distinguere tra professionisti potenziati dall’Ai, come creativi o impiegati, e lavoratori tecnici specializzati, che si trovano spiazzati – avvisa Aloisi –. Sono questi ultimi a pagare il prezzo del parziale successo di strumenti come ChatGpt, Claude, Perplexity, DeepSeek e i loro cloni».
E in Italia? «Una situazione così estrema sembra improbabile – dice Aloisi – sebbene il nostro mercato del lavoro sia da sempre segnato da una forte polarizzazione». È una visione condivisa anche da Andrea Garnero, economista dell’Ocse: «È vero che osserviamo un rallentamento nel settore tech, soprattutto nelle assunzioni. E se allarghiamo lo sguardo, questa dinamica si riflette anche su molte altre opportunità per i laureati, che sembrano incontrare difficoltà nuove, non solo nelle tecnologie emergenti. L’adozione dell’intelligenza artificiale in Italia è lenta rispetto agli Stati Uniti, per motivi culturali, di competenze e di struttura produttiva. Le nostre microimprese possono al massimo fare un uso basilare di questi strumenti. Prima che rimpiazzino davvero i lavoratori, ci vorrà tempo. Anche se il fenomeno è reale, qui arriverà più tardi. E in forma molto più diluita».
Una situazione per cui non c’è da brindare. «Il mercato segnala la necessità di nuove figure professionali in grado di governare l’Ai, e i nostri circuiti formativi non sembrano in grado di sfornarle – sostiene Ruben Razzante, professore di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano –. C’è poi la necessità di una democratizzazione del dibattito sull’Ai. Sono indispensabili campagne di sensibilizzazione collettiva in grado di coinvolgere tutte le fasce di popolazione in questa trasformazione digitale. Chi si sentirà escluso fatalmente resterà ai margini anche in ambito lavorativo. Le nostre democrazie sono impregnate di disuguaglianze sociali, economiche e professionali che l’Ai deve contrastare, non amplificare. Le pubbliche amministrazioni, centrali e locali, sono chiamate a dare supporto tecnologico alle piccole e medie imprese, contribuendo all’inserimento dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi». Ma la politica «deve guidare» e «scongiurare il rischio di nuovi divari».—