La Stampa, 11 agosto 2025
Il peso del gossip
Diversificare i propri investimenti per sfuggire al mercato degli affari altrui.
La prima regola della finanza è semplice. Così semplice da sembrare banale: non investire tutto su un solo titolo. Diversifica, diluisci il rischio, distribuisci il capitale. È prudenza e lucidità, non paura o disimpegno. Una regola così elementare che nella vita, però, dimentichiamo ogni giorno.
Emotivamente, siamo tutti investitori sprovveduti. Troppo spesso concentriamo tutto su un solo asset: una relazione, un lavoro, uno sguardo, un post acchiappa like.
E quando quel titolo va giù, ci ritroviamo senza copertura. Senza paracadute. E allora frughiamo, piu o meno consapevolmente, altrove. Nella vita degli altri.
È la storia delle nostre notifiche. Ore 8:41, sotto il bar di un grande ufficio. Tre coppie di auricolari bianchi, sguardi complici, una frase sussurrata: «Hai sentito l’audio? Te lo giro». La barra di avanzamento corre, una pausa, un mezzo sorriso. Poi un altro “inoltra”. Non cambia nulla. Ma sembra di sì. Come se il crollo altrui – la figuraccia, il tradimento, lo scandalo – distribuisse un dividendo alla nostra giornata in rosso. Un piccolo guadagno emotivo. Effimero, ma sufficiente a tirare fino a sera.
Nelle ultime settimane il mercato del gossip catartico ha registrato due picchi.
Primo: il caso Astronomer. Il ceo Andy Byron e la responsabile delle risorse umane Kristin Cabot ripresi dalla kiss-cam durante un concerto dei Coldplay. Dimissioni a raffica, caos reputazionale, e persino l’ingresso-lampo di Gwyneth Paltrow come “portavoce temporanea” dell’azienda.
Secondo: gli audio attribuiti a Raoul Bova, diventati virali insieme alla notizia del divorzio da Rocío Muñoz Morales.
Ad essere centrale, in entrambi gli episodi, non è tanto la verità quanto l’andamento. Il grafico. Il feed che si riempie, con i nostri commenti, pensati o scritti, ad alimentare un dibattito basato sul – quasi – nulla o su episodi che in fondo sono piuttosto banali, se non comuni, e di sicuro molto simili a quelli che vedono protagonisti nostri amici, colleghi e conoscenti non certo meno corruttibili o più fedeli.
In ogni caso quel dibattito noi lo seguiamo come analisti esperti, con una strana soddisfazione mista ad un senso di sollievo derivante dal non essere noi al centro del tracciato, insomma del passaparola. Come se gli affari degli altri ci schermassero da pericoli che corriamo in prima persona.
E anche qui, a ben guardare, si tratta davvero di affari, di economia delle emozioni. Ciò che ci accade, infatti, non è assimilabile alla curiosità morbosa, ma piuttosto ad una sorta di autocopertura. Quando siamo in perdita, quando cresciamo poco, scommettiamo sul ribasso degli altri. È il contrario della diversificazione: è la distrazione che anestetizza.
Lo facciamo ogni volta che inoltriamo un link, commentiamo con leggerezza il crollo altrui, o ci rifugiamo nella frase fatta: «Ma sì, in fondo sono affari loro». No, non lo sono. Sono i nostri. Perché se avessimo un portafoglio emotivo ben costruito, quel brivido da click non lo sentiremmo neppure.
Allora ecco la domanda: quanti asset reali possediamo? Quali competenze? Un progetto che ci accende? Un corpo che trattiamo come patrimonio e non come scarto? Se la risposta è “pochi”, allora è normale passare il tempo a monitorare l’andamento altrui.
È logica di base: chi non investe a sufficienza, osserva, ed è inesorabilmente destinato ad invidiare i titoli degli altri sperando, in fondo in fondo, che scendano.
In questo, paradossalmente, siamo più accorti con i soldi che con i sentimenti. Secondo dati recentemente diffusi dall’ ABI, gli italiani, rispetto alla media europea, sono i più propensi a diversificare i risparmi, evitando di concentrare tutto in un unico strumento.
Siamo prudenti col denaro, quindi, ma sconsiderati con le emozioni, pronti a fare ogni giorno con il nostro capitale umano ciò che non faremmo mai con un conto corrente.
Di fondo, poi, c’è anche un tema di governance. In finanza, un fondo troppo esposto su un singolo titolo non può disinvestire senza provocarne il crollo. È ostaggio. Immobilizzato.
Lo stesso accade anche nelle relazioni: se tutto il nostro valore dipende da una persona, da un like, da una risposta che non arriva, non siamo più liberi di muoverci. Diventiamo trader delle emozioni altrui. Ricarichiamo il feed per capire se oggi saliamo o scendiamo.
E a quel punto, il gossip non è più intrattenimento: è un derivato tossico. Serve a coprire la nostra esposizione. Una posizione fragile, dunque, mascherata da ironia.
E allora sì, parliamo pure di economia. Ma la nostra. Non quella di Andy Byron o Raoul Bova.
Qual è il nostro indice di base? Ciò che stiamo costruendo può resistere ad un post? È ancora, cosa regge, quando tutto intorno scende?
Iniziamo questo agosto con una proposta minima, concreta. Dimezziamo il tempo che passiamo sulle vite degli altri e reinvestiamolo in asset sottovalutati come una competenza, un hobby, una relazione non romantica. È l’amicizia adulta, forse, l’obbligazione più solida del portafoglio.
E poi ribilanciamo subito senza aspettare la prossima crisi. Diversificare non è diffidenza. È lungimiranza. È cura. È scegliere di mettere il proprio capitale dove può crescere. Anche lentamente. Anche senza hype.
Non siamo moralmente superiori quando non inoltriamo un audio. Forse lo siamo davvero quando non ne abbiamo bisogno. Quando il nostro portafoglio regge anche senza il tonfo di quello altrui. Diversificare, insomma, non per sottrarci al dolore o alla frustrazione, ma per evitare di trovarci a godere del passo falso degli altri. —