La Stampa, 11 agosto 2025
Molare, l’altro Vajont
Questa è una storia che parla di acqua. Il 13 agosto 1935, novant’anni fa in questi giorni, un violentissimo temporale tra Piemonte e Liguria si rovescia sull’alto corso del torrente Orba.Al colmo, in località Ortiglieto, ci sono un lago artificiale e una diga per la produzione di energia idroelettrica, messa in funzione una decina di anni prima. La pioggia è potente e il bacino si riempie alla svelta. Alle 7 del mattino il sorvegliante Abele De Guz contatta la centrale a valle, nel comune piemontese di Molare. Utilizza la linea telefonica interna, l’unica che ha a disposizione. Segnala che il livello dell’acqua nel lago è salito a quota 311 metri. Tanti, considerando che il massimo è 322, e la pioggia non accenna a calare. Alle 8, quota 312. Alle 9, i metri sono 313. Alle 10, la misura è 318.Per diminuire la pressione sulla struttura, il sorvegliante comincia allora la manovra prevista in questi casi, sbloccando una grossa valvola a campana. Dovrebbe lasciar defluire 160 metri cubi d’acqua al secondo, ma alle 10:25 smette di funzionare. Ci sarebbe un secondo scarico sul fondo, però non è mai stato collaudato e non si può usare. Alle 10:45 l’acqua raggiunge la linea di sfioro e defluisce nei dodici poderosi sifoni a caduta. Ma il bosco intorno, quel che resta della foresta urba descritta da Paolo Diacono nell’VIII secolo, è di roveri e castagni e il nubifragio ha trascinato nel lago tronchi e detriti che ostacolano la fuoriuscita.Questa è una storia che parla di terra. Accanto alla diga principale, lunga 200 metri e alta 47, c’è uno sbarramento secondario, 40 metri per 15 di altezza, senza scarichi, inizialmente progettato in calcestruzzo armato e successivamente realizzato in più economica e meno resistente muratura Portland. Le basi poggiano su rocce friabili. “Inconsistenti miloniti serpentinitiche” scrive Luca Mercalli nella prefazione al volume “Storia della diga di Molare” del geologo Vittorio Bonaria (Erga edizioni). E proprio dallo sbarramento secondario alle 12:30 l’acqua tracima. Il lago invade anche il piano terra dell’abitazione del sorvegliante, che strappa l’apparecchio telefonico dal muro, lo trasporta al piano superiore, improvvisa un attacco di fortuna e avverte la centrale elettrica del pericolo di rottura della diga.Tra le 13:25 e le 13:30 lo sbarramento secondario cede. Venticinque milioni di metri cubi di acqua e fango invadono l’alveo del torrente e precipitano a valle. L’onda di piena devasta la centrale, due ponti, un mulino, diversi cascinali, in mezz’ora raggiunge l’abitato di Ovada, dove si abbatte contro la facciata esterna dello Sferisterio in cui la domenica si gioca a tamburello. Il muraglione è stato costruito con tecniche all’avanguardia, e infatti resiste, protegge la cittadina, ma l’onda resta intatta e rimbalza come un proiettile su una borgata oltre torrente. Quartiere popoloso: una piazza, un’osteria, una latteria, una bottega di maniscalco, una falegnameria, una pompa di benzina e decine, decine di abitazioni. Una strage. Poche ore dopo arrivano i giornalisti, il papa invia una benedizione, Hitler un telegramma. Dalle Alpi piemontesi dove si trova in villeggiatura, il re Vittorio Emanuele III scende a visitare i luoghi. Le foto lo ritraggono circondato da uno stuolo di dignitari in equilibrio sulle macerie. Si presenta anche il segretario del partito Fascista Achille Starace, che promette venticinquemila lire ai bisognosi per conto del Duce e altre venticinquemila per conto del partito. Gli sfollati intanto occupano le aule dalla scuola elementare. Cinque giorni dopo ciascuno di loro riceve cinquanta lire e l’ordine di sfratto. La conta dei danni e dei morti, centoundici, richiede più tempo.Questa è una storia che parla di avidità. Non si è trattato solo di produrre energia idroelettrica, nobile scopo, ma di produrne sempre di più, senza freno, senza coscienza, per far sempre più soldi. Rinunciando a necessarie verifiche sui suoli, minimizzando segnali di pericolo come copiose infiltrazioni d’acqua nello sbarramento secondario, tagliando sui costi con criminosa superficialità, tralasciando indispensabili collaudi.Avidità, e colpevole incuria. Questo il risultato degli studi più recenti. All’epoca, in tribunale finirono le Officine Elettriche Genovesi responsabili dell’impianto, cioè tutti i dirigenti che negli anni avevano vegliato su progettazione, realizzazione e messa in opera della diga. Sul banco degli imputati anche un paio di addetti alle strutture e il progettista e direttore dei lavori ingegner Vittorio Gianfranceschi. L’unico che, ai tempi del processo, era già morto. Gli altri furono tutti assolti.Questa è una storia che parla di noi. Non in senso generale, noi italiani: parla di noi oggi. Chi a suo tempo redasse la sentenza di assoluzione si soffermò sull’eccezionalità dell’evento atmosferico del 13 agosto 1935. Adesso sappiamo che il nubifragio è stato sì il fattore scatenante, ma non la causa del disastro. La causa fu l’avidità. E io che vivo nel tempo in cui l’eccezionalità metereologica è diventata la norma e far sempre più soldi un imperativo morale, tremo. Dodici anni prima del disastro di Molare, il crollo della diga del Gleno nella bergamasca valle Scalve (anche lì, morti centinaia) aveva portato a una revisione della legislazione e dei controlli su impianti simili. Non bastò a salvare dall’avidità gli abitanti della val d’Orba, né il disastro del 1935 evitò il Vajont, né il Vajont evitò Stava. Il passato difficilmente insegna. Anche per questo, tremo. E scrivere del passato, come sto facendo, non salverà da disastri presenti e futuri. Al massimo, e tardivamente, e imperfettamente, rende onore alle vittime.—