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 2025  agosto 11 Lunedì calendario

Le donne dell’ultra destra

Fino a qualche anno fa, l’adesione delle donne ai movimenti di estrema destra era considerata un fenomeno marginale, una curiosità statistica da relegare nelle note a piè di pagina degli studi elettorali, tutt’al più una sorta di fedeltà coniugale.
Ma oggi, osservando la nuova geografia del potere reazionario in Europa e Stati Uniti, emerge un dato che ribalta ogni narrazione consolidata: le donne non sono più semplici comparse della deriva autoritaria, ne sono diventate protagoniste, strateghe, volti di punta.
I risultati elettorali delle elezioni francesi del giugno 2024, hanno cristallizzato una realtà impensabile fino a pochi anni fa: uomini e donne hanno votato in modo pressoché identico per il Rassemblement National di Marine Le Pen. Oltreoceano, già nel 2020 il 53% delle donne bianche americane aveva scelto Donald Trump. Numeri che demoliscono l’immaginario obsoleto di un radicalismo di destra esclusivamente maschile, bianco e disilluso. A rivoluzionare il paradigma non sono solo i dati elettorali, ma soprattutto i volti. Marine Le Pen in Francia, Giorgia Meloni in Italia, Alice Weidel in Germania: leader che hanno trasformato la comunicazione politica dell’estrema destra, sostituendo la retorica palesemente aggressiva del post-fascismo con quella che evoca gli stilemi della famiglia e della maternità tradizionali.
La nazione si presenta come casa da proteggere, i cittadini come figli da accudire, lo straniero come minaccia da respingere, non con la violenza, ma con la fermezza della madre. Questa trasformazione trova una chiave di lettura precisa nelle ricerche del linguista George Lakoff sui «modelli familiari» applicati alla politica. Secondo Lakoff, la destra conservatrice ha sempre fatto leva sul modello del «padre severo» – autorità, disciplina, gerarchia – mentre la sinistra progressista si identifica con quello del «genitore premuroso» – empatia, protezione, cura. Le nuove leader dell’estrema destra hanno operato una sintesi geniale: hanno mantenuto i valori autoritari del «padre severo» ma li hanno veicolati attraverso l’estetica della «madre protettiva». Il risultato è una narrazione politica che unisce fermezza e tenerezza, autorità e accudimento, creando un linguaggio emotivamente irresistibile per ampie fasce di elettorato.
Come scrive la storica Léanne Alestra nel suo saggio Les Vigilantes, l’errore più grave sarebbe continuare a leggere queste donne come megafoni del patriarcato, perché, al contrario, stanno attivamente contribuendo a rendere accettabili i contenuti più radicali del nazionalismo contemporaneo, fornendo un volto empatico e rassicurante a ideologie altrimenti respingenti. È attraverso di loro che l’estremismo si fa presentabile, che il linguaggio della paura diventa narrazione di cura materna.
La svolta più inquietante riguarda l’appropriazione del vocabolario femminista. Un numero crescente di attiviste legate all’estrema destra usa la retorica dei diritti delle donne per giustificare politiche xenofobe: la «sicurezza delle donne» diventa pretesto per chiusure migratorie, la sacrosanta critica al patriarcato si trasforma in attacco etnocentrico alle «culture straniere».
È il fenomeno che la sociologa Sara R. Farris definisce «femonazionalismo» e cioè l’uso strumentale del discorso femminista da parte della destra per legittimare razzismo e repressione. Il patriarcato, secondo questa impostazione, sarebbe stato sconfitto in Occidente ma sopravvivrebbe nelle culture straniere, giustificando così l’illusione di superiorità morale della «civiltà occidentale».
Organizzazioni come il collettivo Némésis, presente sia in Francia che in Italia, lavorano sistematicamente per formare giovani donne capaci di incarnare questa nuovo femminismo reazionario. Programmi strategici di comunicazione politica, media training, gestione social: l’obiettivo è costruire figure credibili per le liste elettorali e creare un’alternativa al femminismo progressista, incentrata su maternità, identità nazionale e ordine sociale.
Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, spopola un altro fronte di questa battaglia culturale, il fenomeno delle “tradwives”, mogli tradizionali che sui social promuovono una visione idealizzata della vita domestica, anche se dietro ricette e bambini pettinati, si cela spesso un messaggio politico chiaro e inquietante: il mondo moderno è corrotto, la linea di difesa si attesta nella famiglia, il posto della donna è in casa.
La destra radicale ha cambiato volto, linguaggio, estetica grazie alle donne, oggi non più ai margini ma al centro della legittimazione del discorso estremista. Ignorare questa trasformazione significa lasciare campo libero a una narrazione che mira a normalizzare le idee più radicali e divisive, a giustificare le impostazioni più reazionarie.
Oggi le destre estreme dimostrano, con inquietante efficacia, una capacità che i progressisti sembrano aver smarrito: sanno adattarsi al presente, coglierne le crepe emotive, reinventare linguaggi e metafore per occupare l’immaginario collettivo. Lo fanno strumentalizzando la figura femminile, certo, ma anche, e soprattutto, capovolgendo simboli e parole per raccontare la modernità in modo apparentemente rassicurante, ma profondamente regressivo.
Mentre la destra radicale si rifà il trucco per sembrare madre, rifugio, protezione, troppo spesso i progressisti restano prigionieri di un linguaggio stanco, autoreferenziale, incapace di parlare al cuore e alle paure del nostro tempo. Non ci sarà un mondo nuovo senza un nuovo linguaggio, scriveva Ingeborg Bachmann. Una frase vera oggi più che mai. —