il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2025
Intervista a Chiara Rapaccini
“La città nel 1975 era una città noiosa. Sì c’era un grande movimento studentesco ma alla fine era sempre sonnacchiosa, non succedeva quasi mai nulla. Poi arrivò un’orda di barbari”. La città in questione è Firenze, a parlarne è Chiara Rapaccini – artista, illustratrice, designer e scrittrice nonché compagna di Mario Monicelli per 35 anni – e i barbari sono tutti coloro, dal regista all’ultimo operaio della troupe, che contribuirono a realizzare Amici miei, il film culto di cui in questi giorni si celebra il cinquantesimo anniversario e in cui lei fece la comparsa. “L’arrivo di Mario e di tutta la compagnia fu una vera e propria rivoluzione che sconvolse la città perché i set erano sparsi e lavoravano un po’ ovunque”.
Perché proprio Firenze?
L’idea del film è di Pietro Germi che non voleva girare in Toscana. Nel cinema italiano in quegli anni i “simpatici” erano i siciliani, i campani e anche i liguri. Ma i toscani no, noi toscani eravamo considerati antipatici e “maledetti”. Mario voleva sdoganare tutto ciò per rendere finalmente la Toscana e i toscani simpatici al grande pubblico.
E ci è riuscito perfettamente…
Nel film è rappresentata la grande comicità toscana, soprattutto nell’ideazione e nella realizzazione degli scherzi. Ma c’è stato anche un altro aspetto che ha esaltato la comicità.
Quale?
Nessuno dei protagonisti del film era toscano. Né Del Prete, né Moschin, né Celi, né Tognazzi. Poi c’era Noiret che era francese. Mentre erano toscani gli sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, un po’ lo era anche Monicelli. Quindi gli attori si doppiarono in toscano. E fu divertente anche per loro sentirsi parlare in quel modo e le battute esaltarono l’umorismo della nostra lingua. Mario era un inventore di linguaggi, teneva molto alla lingua.
A tal punto che inventò la Supercazzola, parole in sequenza prive di significato…
Non ricordo se fu proprio lui o Benevenuti e De Bernardi, oppure tutti e tre. Sta di fatto che la Supercazzola è entrata nel linguaggio comune. È un’espressione che si utilizza molto spesso, a tutti i livelli. E, con il passare del tempo, le parole non appartengono più a chi le ha inventate ma a chi le dice. Pure nell’ Armata Brancaleone è accaduta la stessa cosa. Dopo quel film è diventato naturale indicare come ‘armata Brancaleone’ un gruppo di persone che tentano di fare un’impresa e non ci riescono.
Lei ha dichiarato che Monicelli si rammaricava quasi che Amici miei fosse stato scambiato per un film comico…
Prima di tutto Mario rimase sorpreso dal successo del film che in Italia fu campione d’incassi, vinse il “Biglietto d’Oro” perché al botteghino superò anche Lo Squalo di Spielberg. E poi si chiedeva: “Ma come mai tutti ridono di un film che parla della morte?”
Addirittura…
Sì perché lui sosteneva che i protagonisti erano persone di mezza età, tra i 50 e i 60 anni, che si stanno avvicinando alla vecchiaia e i loro lazzi, le loro zingarate le facevano per vincere una paura tremenda che avevano della morte. Questo era l’intento del film, sempre nello stile di Mario che era un misto di toni drammatici e comici. Perciò non capiva tutte quelle risate, sulla Supercazzola o in tanti altri momenti, in un film che doveva essere dominato dalla malinconia. Il personaggio di Noiret, ma anche quello di Tognazzi, sono profondamente malinconici.
Si era dato una spiegazione?
Alla fine si era convinto che l’ilarità di alcuni passaggi avesse finito per prevalere sull’atmosfera di fondo. E un po’ gli dispiaceva.
Ma Monicelli non si è reso conto che, facendo fare la Supercazzola al giornalista Perozzi persino in punto di morte nella confessione con il sacerdote corso al suo capezzale, finiva per renderlo immortale?
Assolutamente no. Deve considerare che quelli che il film lo hanno fatto, scritto e diretto, si consideravano dei semplici artigiani del cinema. E Mario considerava il cinema come un’arte minore. Quella nobile era la musica classica, voleva fare il compositore ma non c’è riuscito. Poi aveva anche ambizioni di architetto.
Per fortuna che alla fine ha ripiegato sul cinema…
Sì ma quando lavoravano a un film non avevano la presunzione di immaginare che stavano creando un capolavoro, un qualcosa destinato a rimanere nel tempo. Si divertivano un mondo, ma veramente tanto, però non erano così narcisisti. Il narcisismo nel cinema italiano è arrivato con la generazione successiva.