il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2025
Eroina o sgualdrina? Emma, l’equivoco dell’amore
Era successo che, nell’estate tra il ginnasio e il liceo, avevo messo in valigia Madame Bovary. Dopo un ultimo bagno prima di risalire dalla spiaggia, chiacchierando era venuto fuori che anche mio papà lo stava leggendo. Io per la prima volta, lui per la seconda; io con gli occhi di una ragazza che dell’amore non sapeva nulla, se non quello che aveva letto nei romanzi, proprio come Emma; lui con quelli della rilettura e della maturità piena. E aveva l’età che ho io mentre scrivo queste righe. Sugli scogli si scatenò una furibonda discussione: io difendevo Emma, condannata dal suo crudele creatore, che chiaramente la disprezzava, a un’esistenza tediosa e misera: aveva o non aveva una donna giovane, graziosa, dotata di unghie perfette (forse l’autore era un po’ feticista dell’unghia?), di occhi stupendi e cangianti (neri, castani e a un certo punto perfino turchesi), con un animo vivace e curioso del mondo, diritto alla pienezza dell’amore che quello sfigato di marito non avrebbe mai potuto darle?
Eh no, cara la mia adolescente inquieta, Emma altro non era che una donnetta, egoista e superficiale, una madre sciagurata, priva di sentimenti, che per condurre la sua vita verso un vagheggiato altrove sempre migliore deve nutrirsi di emozioni violente e inutili crinoline. L’amore era un equivoco, i suoi amanti (entrambi vili e con l’unico vero pregio di desiderarla) una scusa. Insomma, è una donna che sul letto di morte chiede uno specchio! A supporto della sua tesi, papà portava non tanto i tradimenti, quanto il disinteresse verso la povera Berthe o la sciagurata gestione del denaro; non era “nemmeno una sgualdrina”, ma una bugiarda che per levarsi dai guai si suicida, e chissenefrega del dolore che si lascia dietro. Che non fosse una questione di morale bigotta si evinceva dal fatto che lui aveva perdutamente amato Anna Karenina, adultera e suicida pure lei, ma con che coraggio e con che profondi tormenti! No, Emma era una provincialotta (“ma anche noi, papà, siamo dei provinciali”) che dopo una sola festa al castello del marchese di Andervilliers, si strugge di desiderio per Parigi, soffocando nella miseria di Tostes, maledicendo il marito, confondendo “la sensualità del lusso e le gioie del cuore, l’eleganza dei costumi e la delicatezza del sentimento”. “Voleva morire, voleva abitare a Parigi”: la crudeltà con cui Flaubert tratta la sua creatura forse non ha eguali. L’argomento fine del mondo fu questo: esiste il bovarismo – per nulla una bella cosa – non esiste il kareninismo.
Mio padre se ne andò una decina d’anni dopo questa discussione e non ci sarebbe stata, dopo, rilettura di Madame Bovary senza il suo sguardo a farmi da bussola. Ci sarebbe voluto molto tempo prima che il suo punto di vista diventasse il mio, cosa che è puntualmente accaduta e di cui forse bisogna incolpare l’età. E visto che parliamo di punti vista, vale la pena ricordare che questo terribile romanzo è straordinario perché lo è il suo stile, su cui fiumi di inchiostro sono stati spesi (utilissima la bibliografia contenuta nell’edizione Mondadori, prefata da Antonia S. Byatt). Spesso non si capisce chi racconta, chi pensa. Fin dall’incipit, dove s’incontra il giovane Charles al primo giorno in collegio: “Eravamo nell’aula di scuola quando fece il suo ingresso il preside”. Eravamo chi? E così, mille altre volte nel corso della storia, non sappiamo quanto e quando Flaubert presta la sua intelligenza a Emma. Lo spiega benissimo Alessando Piperno nel Manifesto del libero lettore, commentando i tormenti di Emma reduce dalla festa alla Vaubyessard: “Il lettore rimane sconcertato. A chi attribuire queste idee sull’amore? Questi sogni a occhi aperti da rotocalco? All’autore o al personaggio? Ancora una volta è evidente che Flaubert presta il suo stile forbito a Emma. Sfruttando tutte le opportunità concesse dal discorso indiretto libero, mostra l’amore romantico per ciò che è: uno strazio ridicolo”. Il primo romanzo moderno, secondo la definizione di Mario Vargas Llosa, ebbe un successo incredibile, nonostante una protagonista meschina con cui – a meno di non avere quindici anni – identificarsi è complicato e di cui innamorarsi è impossibile. Si può amare una donna che spinge il marito, insieme al pedante farmacista Homais, a operare il piede torto del garzone Hyppolite per la vanità di essere la moglie di un medico famoso, perché, in crisi con l’amante Rodolphe, “chiedeva soltanto di potersi appoggiare a qualcosa di più solido dell’amore”? E quando alla fine un altro medico deve amputare la gamba del paziente, non riesce neanche a condividere l’umiliazione del marito: “Lei ne provava un’altra, quella di avere creduto che un simile omuncolo potesse valere qualche cosa, come se non avesse avuto sufficienti prove della sua mediocrità”. Hippolyte è stato il vero responsabile della mia separazione da Emma, insieme a Charles: a ogni rilettura il pendolo dei miei favori si spostava verso di lui, anche grazie a uno strano libro di Jean Améry – intellettuale che meriterebbe ben più di una menzione per questo lavoro. Charles Bovary, medico di campagna è un romanzo-saggio in cui l’autore prende le parti del marito cornuto: “Je vous accuse, Monsieur Flaubert! La accuso perché mi ha negato i legittimi diritti di uomo e di borghese, trasformandomi in uno schiavo privo di volontà”. A pensarci bene il romanzo inizia e finisce con Charles: comincia con la sua figuraccia a scuola e termina con la sua inspiegabile morte. Flaubert non ha mai pronunciato la frase “Madame Bovary c’est moi”, ma noi potremmo, a titolo di riparazione, dire che sì, “Charles Bovary c’est moi”.