il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2025
Kundera, tassista abusivo destinato all’immortalità
Parigi, 27 gennaio 1984. Bernard Pivot, conduttore dell’iconica trasmissione televisiva francese Apostrophes su Antenne 2, si liscia il ciuffo secondo la scriminatura e indica alla sua destra l’ospite della puntata: lo scrittore Milan Kundera. In quelle settimane è uscito L’insostenibile leggerezza dell’essere e il successo è immediato. Durante quella presentazione televisiva, con la stessa furia con cui si sciorinano gli ingredienti di una ricetta arcinota, Milan si sente dare dello “scrittore rigettato”, “esiliato”, “destituito della propria nazionalità” ma adesso “cittadino francese” (già dal 1981), insieme a qualche fugace nozione di Storia come i carri armati russi che invadono le vie di Praga. La telecamera inquadra Pivot, fiero del tono sferzante conferito alla puntata, e poi Kundera, corrucciato, il mento appoggiato sul pollice. L’introduzione prosegue: “I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo, tranne che nei paesi dell’est” dove “sono stati ritirati da librerie e biblioteche”. Milan è teso, si liscia la guancia sbarbata di fresco e guarda in sala dove è seduta Véra, sua moglie.
È questa, che sarà l’ultima apparizione pubblica dello scrittore nato a Brno in Moravia nel 1929, la scena cruciale che rivela la natura fascinosamente ambigua dell’Esilio di Milan Kundera a Parigi che lo storico Enrico Galimberti manda in libreria in concomitanza con il secondo anniversario della morte di Kundera, avvenuta l’11 luglio 2023. Un avvincente romanzo biografico, dunque, che di per sé è un compito assai arduo, se pensiamo che lo stesso Kundera, quando nel 2011 curò i due volumi della Pléiade che raccolgono le sue opere, al posto di un profilo biografico presentò un florilegio di proprie citazioni dal titolo C’est l’oeuvre qui parle. Inoltre, c’è chi sostiene abbia distrutto i manoscritti inediti, i taccuini e tutta la corrispondenza; oltre che bloccato in tutto il mondo le traduzioni delle sue poesie giovanili. Per imbarazzo, si direbbe a sfogliare Clovek, zahrada širá (Uomo vasto giardino), la sua silloge d’esordio datata 1953, anno della scomparsa di Stalin, in cui versificava così: “Sempre più in alto, sempre più con Stalin”.
L’esilio a Parigi del titolo, dunque, non è solo il racconto di come nel 1975 ottenne il permesso di espatrio dopo che da scrittore e docente, reo di credere in un socialismo dal volto umano, era finito a fare il tassista abusivo per campare, salvo poi essersi visto ritirare la patente poche settimane dopo durante un’imboscata con un poliziotto in borghese, e a compilare oroscopi sotto pseudonimo per una rivista per ragazzi. Ma anche di come visse a Parigi. Nel documentare questa seconda metà della vita di Kundera, attraverso una preziosa conversazione con la moglie Véra Hrabanková (deceduta poi nel settembre 2024), Galimberti racconta come l’esilio fu la categoria dello spirito del Kundera scrittore, in cui si sentiva ora prigioniero ora padrone. E non stupisce, infatti, che a un intervistatore americano rispose che “è lo spiccato individualismo dello scrittore a fare di lui un esiliato”. Lui che, gli ultimi trent’anni della sua vita li passò a evitare gli inviati di tutto il mondo appostati sotto casa a rue Récamier. “Quei cani da fiuto dei giornalisti dovrebbero essere impiccati” ripeteva Véra ai pochi amici. Tra questi, certamente, l’americano Philip Roth e l’italiana Goliarda Sapienza, la quale in un’intervista – tra il detto e non detto – ricordò una notte d’amore vissuta in gioventù con Milan, le cui doti intime l’avevano impressionata, per non dire spaventata.
Giunto nella Ville Lumière per la prima volta nel 1968 per la pubblicazione del suo primo romanzo Lo scherzo, a cui seguiranno altri romanzi e saggi di capitale valore, la Francia infatti rappresentò per Kundera non una seconda vita, ma la possibilità di viverla, una vita, da uomo e scrittore libero, senza censura o spie come invece accadeva nella Cecoslovacchia asservita ai sovietici, dove era un sorvegliato speciale. Negli archivi della polizia segreta del suo Paese, infatti, con il nome in codice di “poeta” o “elitista”, alla fine degli anni Sessanta venivano annotati tutti i suoi spostamenti.
Ma i suoi romanzi, sottolinea Galimberti, sono tutti ambientati lì. In quella terra dove era nato e dove, alla fine, forse voleva tornare. Eppure, quando nel 2019, grazie all’impegno del primo ministro ceco Andrej Babiš, gli venne offerta la cittadinanza ceca, decise comunque di non rimetterci più piede, nonostante Véra avesse trovato già un appartamento a Brno. Per uno scrittore, convinto com’era Kundera che non l’autore deve trovare l’immortalità, ma la sua opera, ora che i suoi libri potevano tornare a casa, nelle librerie, nelle biblioteche e nelle mani dei lettori della Moravia e della Repubblica Ceca tutta, l’esilio era finito.