il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2025
La prima volta del rigore “a cucchiaio”
Il Muro c’è. Ed è lì a difendere la porta della Germania. Anzi, Germania non basta. Perché nel 1976, dopo la parola Germania, ce n’era un’altra da pronunciare per specificare il punto cardinale che sorregge e giustifica il Muro. Sepp Maier è il Muro. Non che sia di corporatura gigantesca ma di mestiere fa il portiere della Germania Ovest e del Bayern Monaco che dominano il mondo. Davanti a lui c’è un maestro di nome Franz Beckenbauer e questo spiega il perché di così tante vittorie: Coppe dei Campioni, campionati tedeschi e, solo due anni prima, la Coppa del Mondo in finale contro l’Olanda. Già, l’Olanda, la squadra più rivoluzionaria che abbia mai giocato a calcio. La creatura di Rinus Michels, il visionario. Uno che voleva che i suoi atleti sapessero disimpegnarsi in ogni zona del campo come se la specializzazione fosse una bestemmia e la divisione delle mansioni in ruoli un’ottusa semplificazione dell’arte pedatoria.
Nella finale degli Europei del 1976 la Germania Ovest si trova di fronte la Cecoslovacchia, due espressioni geografiche di una cartina che non c’è più. Sepp, il Muro, indossa un maglione azzurro mentre, in quella fredda serata, estiva solo sulla carta, gli avversari sfoggiano un improbabile tris di colori: celesti i calzini, bianchi i pantaloncini, rossa la maglia. Rossa come la Stella che dà il nome all’impianto di Belgrado. Rossi come quelli che stanno dall’altra parte del Muro. Lo Stadion Crvena zvezda tifa contro i tedeschi e non per via del socialismo ma perché tre giorni prima, in semifinale, la Jugoslavia è stata battuta dalla Germania (Ovest) dopo i tempi supplementari. Epilogo che rappresenta un must di quell’edizione, disputata tra Zagabria e Belgrado, perché nessuna delle quattro gare – le due semifinali e le finali per il primo e per il terzo posto – si chiude al 90’.
Trafitti in avvio prima da Švehlík e poi da Dobiaš, i campioni del mondo sono a sorpresa sotto di due reti contro gli sfavoriti cecoslovacchi. Della formazione che nel 1974 aveva vinto i mondiali organizzati in casa ne mancano quattro. Tre di loro, Overath, Grabowski e Gerd Müller, la catena offensiva, sono tutti un po’ in là con gli anni e hanno deciso di lasciare la scena internazionale dopo aver alzato la Coppa. Di Paul Breitner si avverte maggiormente la mancanza. Ha 25 anni e tutta una vita agonistica ancora da spendere. Però la Germania non gli va a genio e gli viene naturale scontrarsi con chi comanda. Al Bayern, in federazione e soprattutto con il tecnico della Nazionale Helmut Schön. Se ne è addirittura andato via da Monaco per trasferirsi al Real Madrid. Non solo. È considerato un “pericolo sovversivo” perché legge e ammira Mao, lascia barba e capelli incolti (il soprannome è Der Afro) e va dicendo in giro “non mi sento tedesco, e senza dubbio non mi sento bavarese”. Nel 1975 in federazione quasi brindano quando il terzino barbuto annuncia l’addio (ma sarà un arrivederci) alla Nazionale.
A Belgrado, sotto lo sguardo dell’arbitro italiano Sergio Gonella (che due anni più tardi dirigerà la finale dei Mondiali ’78 Argentina-Olanda), i bianchi – dopo aver accorciato con Dieter Müller al 26’ del primo tempo – cercano per oltre un’ora di “bucare” il portiere Viktor. Solo all’ultimo assalto, un pallone innocuo si trasforma in assist per il “piccolo” Hölzenbein che di testa anticipa il portiere castigandone la scriteriata uscita. Durante i tempi supplementari il 2-2 non cambia: la quinta edizione degli Europei si assegna ai rigori.
Otto gol nei primi otto tentativi. L’ultimo tiro dei tedeschi è affidato a Hoeness, fisico possente e chioma bionda da leone, che si avvicina al dischetto con il petto in fuori. Al fischio di Gonella il numero 8 esplode un destro terrificante ma senza controllo, la palla a mo’ di razzo decolla e trafigge il cielo.
Il ct Václav Ježek decide che la responsabilità del quinto rigore dei cecoslovacchi debba prendersela Antonin Panenka, numero 7 sulle spalle, baffi a manubrio e andatura caracollante. Gioca nel Bohemians di Praga (dove è nato) e da due anni studia il “rigore perfetto”. “Avevo capito – dirà anni dopo – che i portieri si gettano sempre da un lato, a destra o a sinistra, e che quindi tirarlo al centro era una buona idea”.
Sepp, il Muro, lo osserva prendere una maxi-rincorsa e pensa: “Destra o sinistra? Sinistra o destra?”. Alla fine sceglie la sinistra. Panenka avanza affrettando il passo e arriva sul pallone con il busto eretto e lo sguardo furbo. Non calcia con violenza ma accarezza il pallone e con il dorso del piede si limita a sollevarlo. La sfera prende quota, in direzione della porta ma verso l’alto, la forza di gravità è sconfessata, il tempo si ferma e si dilata, ogni attimo dura un’eternità. Maier si è gettato a sinistra, è a terra, in tutti i sensi. Dal tappeto d’erba dove è steso ammira – come i 30 mila dello stadio – questa bizzarra parabola di un pallone che, roteando platealmente quasi compiacendosi di avere tutti gli occhi addosso, si appresta ad accarezzare la rete. Era appena nato il “cucchiaio”, l’atto più sacrilego e rivoluzionario della liturgia calcistica.
Quattro anni più tardi, al San Paolo di Napoli nella sfida per l’assegnazione del terzo posto tra Italia e Cecoslovacchia, Panenka calcia ancora l’ultimo rigore. Davanti si trova Dino Zoff. Lo batte senza umiliarlo. Per rivedere un “cucchiaio” agli Europei si dovrà attendere il 2000, quando Francesco Totti sfodererà il colpo indisponente nella serie finale dei rigori in semifinale contro l’Olanda.