il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2025
La giornalista da 3 euro ad articolo che ha battuto Angelucci in tribunale
Gli articoli sul Tempo e poi su iltempo.it, facendo i conti a spanne, a volte erano pagati anche meno di tre euro. Lordi, s’intende. Al massimo si arrivava a 10, sempre lordi. Erano tanti, fino a 160 e perfino 220 in un mese: sport, costume, tv, ma pure la politica, il Covid e l’Ucraina. Gli spazi del web sono infiniti e quelli dello sfruttamento pure, mica solo al Tempo. Roba da rider dell’informazione, ritmi da fabbrica tessile cinese. Compensi fissi, con contratti di sei mesi in sei mesi: dai 370 euro lordi mensili del 2016 sono passati a 1.000 (sempre lordi) nel 2023, evidentemente Giada Oricchio era apprezzata. E allora anni di promesse, “ti assumiamo”, come succede a migliaia di giornalisti non sempre giovanissimi, nell’informazione locale e non solo. Finché Oricchio, che sul Tempo scriveva dal 2006, non ce l’ha fatta più: “Non avrei mai voluto fare causa. Ho resistito 17 anni… una vita… mentre altri mi passavano davanti”. E allora fuori, il padrone non perdona chi fa causa. Non è nemmeno un padrone qualsiasi: Il Tempo, quotidiano conservatore romano, fa capo al gruppo di Antonio Angelucci, parlamentare oggi leghista e ormai signore dei giornali di destra – da Libero a Il Giornale – oltre che delle cliniche che vivono in larga parte di soldi pubblici.La causa l’ha vinta Oricchio, almeno in primo grado. Il 18 giugno scorso la giudice Tiziana Orrù, presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Roma, ha condannato l’editore Il Tempo Srl ad assumerla come collaboratrice fissa (articolo 2 del Contratto nazionale) e a pagarle 266 mila euro di retribuzioni arretrate dal 2016, più rivalutazione e interessi, e 88 mila euro di contributi previdenziali non versati. Una quantificazione forfettaria, non troppo generosa: Oricchio all’inizio ne aveva chiesti 595 mila. Dopo il verdetto si è messa a disposizione. Però al Tempo, diretto da Tommaso Cerno almeno finché dura, non sembrano intenzionati ad assumerla, se ne infischiano anche di una sentenza provvisoriamente esecutiva. Magari pagheranno di più, ma intanto vanno in appello. “La vicenda si riferisce a una situazione originata in periodo ben antecedente l’attuale proprietà e gestione. La sentenza è stata impugnata e la Società sta compiendo ogni opportuna valutazione in merito alla gestione del contenzioso” è la risposta di Tosinvest, la finanziaria degli Angelucci. In realtà sono stati condannati a pagare dal 2016, quando hanno comprato Il Tempo. Per i 10 anni precedenti Oricchio i soldi li ha persi nel concordato preventivo della vecchia società, che faceva capo al costruttore Domenico Bonifaci. “Allora avevo un cococo (collaborazione coordinata e continuativa, ndr) ma non è che mi pagassero meglio. Poi mi hanno fatto un contratto di cessione di diritti d’autore”. Ora gli avvocati trattano per evitare il pignoramento.
Raccontano che la giudice Orrù abbia più volte esortato il legale del Tempo a fare una ragionevole transazione, ma a quanto pare non volevano creare un precedente. Hanno anche altre collaborazioni discutibili. Così si sono beccati la sentenza, che conferma quanto sancito dalla Cassazione anche se poi la giurisprudenza non è più così granitica: ciò che conta, scrive Orrù, è “l’inserimento continuativo ed organico delle prestazioni stesse nell’organizzazione dell’impresa”. Decine di articoli tutti i mesi, per sette anni (più altri 10 col vecchio editore), sabati, domeniche e festivi compresi. Articoli richiesti dalla redazione, altro che collaborazioni autonome. Da un settore all’altro, dallo sport a qualsiasi cosa. Prima carta e dal 2018 web: “Anche un milione di visualizzazioni”, ricorda Oricchio. L’ha assistita Giuliana Quattromini di Napoli, avvocata lavorista dell’Associazione Comma 2: “È sempre più difficile far comprendere certe situazioni ai giudici, questa volta abbiamo trovato un giudice che ha voluto comprendere”.
Lo sfruttamento nei giornali non inizia e non finisce al Tempo. Non sarebbe possibile senza l’attiva partecipazione di altri giornalisti, dai direttori in giù, responsabili dell’organizzazione del lavoro e dei servizi. Dovrebbe occuparsene l’Ordine: chi guida giornali e siti che pagano tre euro al pezzo non fa bene all’immagine della categoria. Da tempo il sindacato Fnsi chiede regole sull’equo compenso, ma intanto l’informazione in crisi si regge sempre più sui collaboratori autonomi o finti autonomi, in buona parte sottopagati anche senza arrivare ai tre euro al pezzo: sono circa 26 mila, quelli assunti meno di 14 mila di cui duemila alla Rai.