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 2025  agosto 05 Martedì calendario

Una biografia di Sergio Leone



L’ultima volta che ebbi l’onore di parlare con quel gran signore del cinema che è stato Giuliano Montaldo, mi raccontò che uno dei personaggi più singolari della nostra storia di celluloide fu senz’altro Sergio Leone. Quella singolarità si ritrova all’inizio del bellissimo saggio di Piero Neri Scaglione, Sergio Leone. Il romanzo di una vita (Sperling & Kupfer, pagine 262, euro 19,90) le cui pagine si leggono come si guarda un film. In questo biopic narrativo, come nel più divertente dei backstage, ritroviamo subito Montaldo che entrando nell’ufficio degli altrettanto originali produttori Arrigo “Harry” Colombo e Giorgio “George” Papi «sente arrivare il suono dello stormire del vento nelle grandi pianure americane. Poi di zoccoli di cavalli al galoppo. E, all’improvviso, colpi di pistola». La sorpresa fu che tutti quei rumori provenivano dalla bocca di Leone che come suo uso raccontava ai produttori, “rapiti” dalla storia, il film che aveva in mente, scena per scena, con tutti gli effetti sonori a corredo. Un modo quasi infantile di guardare al cinema. Del resto Leone, intervistato da Gianni Minà, dichiarava con una certa fierezza: «I miei film, in fondo, sono il mondo giudicato dai bambini».
Il principe degli spaghetti western, dopo essersi divertito e sfamato grazie alle sceneggiature di film come Gli ultimi giorni di Pompei, nel biennio 1964-’66 aveva fatto il salto di qualità, girando i lungometraggi dell’ormai epica “trilogia del dollaro” ( Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto e il cattivo) con cui inaugurava un genere, perennemente imitato. Mentre gli americani smettevano di produrre pellicole western, quel fanciullone del west nato a Roma, nel 1929, a 35 anni iniziava la sua vera carriera, firmandosi pudicamente Bob Robertson: un omaggio al padre, Vincenzo, in arte Roberto Roberti, attore carismatico e regista del nostro cinema muto. È arcinoto che al figlio d’arte, Sergio, il quid per un Pugno di dollari, con l’ingaggio dell’an-cora acerbo e televisivo Clint Eastwood, venne dopo la visione illuminante de La sfida del samurai del maestro giapponese Akira Kurosawa. Chi parla ancora di “furto di soggetto” commette un peccato mortale. Il cinema di Leone a partire da questa seconda prova registica (la prima era stata Il colosso di Rodi, 1961) riapriva un orizzonte che non era stato del tutto esplorato. Il successo fu travolgente e al botteghino ne pagò le conseguenze la commedia all’italiana con “Sordi-Gassman battuti dal western fatto in casa”, titolava il “Corriere della Sera”, sottolineando il mezzo miliardo di incasso. Un film che fa da spartiacque nella storia del nostro cinema, perché – spiega Scaglione – traccia «una linea generazionale precisa, piace ai giovani, fa entrare anche l’Italia nell’era del pop, nello stesso anno in cui i Beatles conquistano l’America e diventano un fenomeno mondiale». Leone con la “Trilogia del dollaro” fa saltare il banco, e lo fa da romano in America. Un visionario che tra Almeria e Cinecittà si era inventato un mondo fantastico in cui far tornare bambini gli adulti, con i duelli dei pistoleri e quelle trame che per lui altro non erano che l’ultima forma dell’epica spiegata per immagini. Da qui la convinzione tutta leonesca che «anche l’Odissea e l’Eneide in fondo sono western». Se gli spaghetti western sono le sue revisioni omeriche, allora C’era una volta in America è la divina commedia del cinema, e ancora una volta spiazzò clamorosamente gli americani. Il suo capolavoro assoluto esce nei cinema di tutto il mondo nel 1984, tredici anni dopo Giù la testa, ultimo capitolo della saga western. Ennesima prova d’autore che avrebbe fatto scattare il corteggiamento della Paramount, che voleva affidargli la regia de Il Padrino.
Ma questa forse è più una leggenda metropolitana. «La verità scrive Negri Scaglione – è che suo cognato, Fulvio Morsella, per anni autentico braccio destro per la realizzazione di tutti i progetti di Leone, aveva letto il romanzo di Mario Puzo e gli aveva suggerito di prenderne i diritti, anche se poi lo stesso Leone, dopo la rottura con Morsella, dirà che gli venne consigliato di lasciare perdere, perché la storia valeva poco». Nella sua testa c’era già quel romanzo di Harry Grey, Mano armata ( The Hoods, 1952), che sarebbe diventato il soggetto di C’era una volta in America. «Leone si innamorò dell’unica parte inesistente nel romanzo, cioè quella del ritorno trent’anni dopo del vecchio gangster a New York, da cui era scappato per sfuggire alla vendetta della mafia». Il suo Noodles diventa un alter ego per Leone, che con quel film fa un precoce bilancio esistenziale. Un bilancio iniziato a 40 anni per poi realizzare quel “film della vita” a 55 e morire cinque anni dopo. Un film perfetto, dal cast alla colonna sonora dell’eterno compagno di scuola fin dalle elementari, il genio Ennio Morricone che per quel film compose delle sinfonie da Oscar. Ma la prima delle due statuette a Morricone arrivò solo nel 2007 e come riconoscimento alla carriera. Meglio tardi che mai. Leone rimase sempre a mani vuote e soffriva per quei riconoscimenti mancati. Ad aumentare la sua frustrazione contribuiva anche una critica costantemente feroce che anche di fronte a C’era una volta in America continuava a trattarlo da “spaghettaro del west”. Eccezion fatta per i francesi. A Parigi, quando uscì, il film venne proiettato in un cinema per due anni di fila e a Cannes ebbe una proiezione speciale con grande accoglienza per il regist, che comunque sui Festival era stato caustico come sempre: «Non vorrei mai vincerne uno, se poi nessuno va al cinema a vedere il mio film».
C’era una volta in America, divenuto film di culto, non doveva essere l’atto finale di un cammino trentennale fatto di appena otto film. L’Assedio di Leningrado era uno dei due a cui Leone stava lavorando prima di morire. Ma il suo vero canto del cigno poteva essere quel western con atmosfera alla Via col vento, protagonisti Mickey Rourke e Richard Gere:
Un posto che solo Mary conosce , così si doveva intitolare. Lo avrebbe solo prodotto e la regia sarebbe stata affidata all’allora giovane nipote Luca Morsella. Ma in fase di sceneggiatura «Leone si era così appassionato alla storia che probabilmente sarebbe tornato dietro alla macchina da presa», spiega Negri Scaglione. Anche per continuare l’opera di demolizione del mito americano dimostrando ancora una volta che il grande cinema poteva nascere da un visionario a Roma. «Una delle frasi che colpiscono in tal senso – conclude Negri Scaglione – è quando Leone sostiene che il mito americano non è di proprietà degli americani ma glie l’abbiamo solo affittato e devono stare attenti ad essere sempre all’altezza di quel mito». In piena era Trump, gli americani farebbero bene a rivedersi tutta la filmografia di un uomo che li ha sempre stupiti, per una ragione: ha amato il cinema più della sua vita.