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 2025  luglio 30 Mercoledì calendario

Eterni istanti di Tirana: mucche in superstrada e la Coppa targata Mou

Sulla strada che porta da Durazzo a Tirana c’erano le mucche. Parcheggiate fuori dai giardini, di fronte ai cancelli delle case. Legate al guinzaglio dietro il guardrail, su ciuffi d’erba spelacchiati, a un passo dalle corsie e dai clacson. Non eravamo ancora ubriachi, di gioia o altro: le mucche in superstrada le abbiamo viste coi nostri occhi.
Era il 25 maggio 2022. Di Tirana sapevamo poco e ci aspettavamo ancora meno. Quando tifi in quel modo lì, diciamoci la verità, non sei del tutto consapevole del contesto. Ma è uno degli ultimi varchi per frequentare una città fuggendo dai recinti turistici che stanno disegnando per venderla agli stranieri: viverla e basta, conoscerla facendo quello che ami.
L’abbiamo amata subito, Tirana, dalle mucche in poi: la corsa senza fiato e senza senso nella macchina di Erjon tra le vie strette e dissestate, ad angolo retto; frena raramente, ogni svolta cieca regala prima un sussulto e poi una risata di sollievo. Ci porta vivi, contro ogni pronostico, all’indirizzo concordato: Rruga Ramazan Dema. La struttura è fatiscente e bellissima, il nome una dedica ingenua – decisamente fuori contesto – al turista occidentale: Me and You Hostel. C’era poco di memorabile lì: periferia est della città, palazzine sgarrupate e case basse, molte ancora da finire, con i tiranti che sbucano in cima ai tetti provvisori; i fili dell’elettricità che scendono dai pali come grovigli, l’impressione di un’urbanistica imbizzarrita, un piano regolatore mai pervenuto (Boeri, dove sei?), un senso di possibilità e urgenza, un profumo di irrazionale vivacità balcanica nell’aria. Ricordava vagamente Torpignattara.
Il centro era lontano mezz’ora a piedi, con i cantieri che vengono su come funghi, i musei per turisti allestiti nei vecchi bunker del regime per vendicare l’incubo socialista di Henver Hoxha; Tirana aveva chiuso con la più tetra forma di comunismo solo all’inizio degli anni 90, poi era stata dimenticata, in serena arretratezza, per un paio di decadi, quindi aveva iniziato a vibrare del desiderio di affitti brevi, soldi e cemento, come tutte le capitali d’Europa.
Arriviamo in piazza Skanderbeg, conciata a festa per la finale. La coppa si chiamava e si chiama ancora Conference, la Uefa se l’era appena inventata per portare un po’ di calcio d’élite in palcoscenici minori e mercati emergenti, come Tirana e l’Albania. A noi fregava niente di valutare in modo oggettivo il prestigio dell’impresa: era l’ultima tappa di un viaggio metafisico che avevamo iniziato quasi un anno prima, una passata di cemento su amicizie fondamentali; quel giorno non l’avremmo dimenticato mai.
Sulla facciata dell’Università Politecnica, gli albanesi avevano issato uno striscione enorme con un uomo a cavallo di una Vespa bianca col lupetto di Gratton: “Benvenuto a Little Roma, mister Mourinho”. Little Roma e mister Mourinho. Un anno prima mi ero addormentato sul divano di casa, dopo pranzo. Al risveglio le chat erano impazzite: centinaia di messaggi increduli, “Abbiamo preso Mourinho”. Little Roma eravamo noi, lui è uno degli allenatori più importanti della storia del calcio. È venuto anche perché la sua carriera aveva imboccato il declino, sapeva di essere più grande della squadra, un carisma e un ego che riempiono la città. Ma di quell’uomo estenuante, cinico e geniale che ci aveva sconfitto quasi sempre, che avevamo odiato con rispetto, è arrivata una versione invecchiata, addolcita, empatica. Manipolatore puro eppure innamorato: Mourinho che ha già vinto tutto corre sotto la curva per un gol al Sassuolo, sbanda come un tifoso ciclotimico, proprio come noi; prima di Tirana, piange come un bimbo per aver eliminato il Leicester. Aveva creato un’allucinazione collettiva: lo stadio sempre pieno, ci eravamo scordati di essere litigiosi, inaciditi, ognuno perso nella propria idea di calcio e di vita. Ci ha regalato un viaggio indimenticabile.
La partita non è bella, e chi gliel’ha chiesto mai. Il primo tuffo al cuore è dopo trenta minuti. Non c’è modo di far capire a una persona sana di mente cosa significhi un gol in trasferta, in una finale poi, per gli spostati come noi: è il momento in cui tutto collassa, il tempo si ferma per un istante lunghissimo e poi deflagra, accelera come dentro a un’allucinazione; ti trovi spogliato della tua dimensione individuale, sei letteralmente mescolato agli altri, non sai più dove cominci tu e dove finiscono le altre persone. Novanta minuti più recupero di Mourinho possono essere un’esperienza terrificante, specie se non vinci quasi mai e aspetti quel momento da vent’anni. Il nostro portiere sembra un eroe Marvel. Poi finisce, siamo vivi. È una festa. Si ride, si piange, si abbraccia chi c’è, si scrive a chi è lontano e si pensa a chi non c’è più. Mourinho portato in trionfo sotto al nostro settore: ogni cosa è illuminata, è uno di quei momenti perfetti.
Sono tornato a Tirana. La città cresce, c’è ancora quella frenesia anarchica e allegra, ma girano più soldi, più turisti, i prezzi schizzano nella stessa direzione del cemento. Lo stadio della finale è diventato un centro commerciale, la sua torre è un hotel Marriott. Il premier si inginocchia alla Meloni. Mourinho è stato mandato via. Tutto scappa, la gioia brucia in fretta, ma Tirana è per sempre, come questa felicità.