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 2025  luglio 30 Mercoledì calendario

Tour di bugie contro l’overtourism

Nel bugiardino del turista esiste una lista di luoghi «da visitare per forza», località che un tempo erano raccomandate dalla guida e che oggi vengono usate come sfondo di un selfie, consigliate da un video sui social network. Di quel luogo famoso non rimane spesso che lo scatto, abitato sullo sfondo da persone impegnate a inseguire lo stesso obiettivo: dichiarare «anch’io ci sono stato». In questo senso, il quartiere di Asakusa a Tokyo è il cuore dei selfie. La storia popolare dell’antica Edo si raggruma nell’ingresso di Kaminari-mon, con le due divinità di Fujin e Raijin a vegliare il principio del viale commerciale in cui illudersi d’avere a portata di mano il paese e la sua cultura passata e presente. Asakusa domina l’immaginario di chi cerca l’essenza di Tokyo, come una spremuta di quel qualcosa che richiederebbe giorni e settimane per essere assaporato ma di cui, in mancanza di tempo, si cerca una formula abbreviata. Eppure, sono proprio questi luoghi ultra-noti a soffrire maggiormente la semplificazione. Della sua immensa ricchezza, grazie alle due o tre cose ripetute a pappagallo da guide umane, cartacee o su schermo, di Asakusa resta solo un’impressione annacquata.
Ma cosa accadrebbe se si pagasse per fare un tour del quartiere e si ricevessero in cambio, non informazioni stereotipate, ma vere e proprie bugie?
È esattamente contro la percezione standardizzata e lo svuotamento di senso che si posiziona il Collettivo Diversi Punti Di Vista («betsushiten»), che organizza «tour di bugie» («uso no tsu?»). Il loro obiettivo è quello di scardinare la convenzione, di smantellare l’ovvietà, anche a costo di trasbordare nel falso. Basta sfogliare il loro libro-manifesto, L’Approccio dell’esperto appassionato: come scoprire la città da un punto di vista diverso, per intuire come questo tipo di narrazione serva da lente d’ingrandimento sul paesaggio urbano. Anziché sorbirsi la solita tiritera sui consueti monumenti e fare sosta in negozietti acchiappa-clienti, si vanno a cercare insieme guanti spaiati per strada, se ne esplora il mistero; si collezionano anche cartelli stradali fai-da-te e ci si sofferma sulle macchie di umidità sui muri dei palazzi, sull’insolita forma dei vasi fuori dalle abitazioni.
Incuriosita, decido io stessa di partecipare a un «tour di bugie». Ci incontriamo una mattina di primavera davanti al cabinotto della polizia a lato di uno dei maggiori svincoli di Asakusa. Si mescolano d’un tratto bugie e verità e lo stigma della menzogna cade per trasformarsi in narrazione. Fin dall’inizio, la guida stabilisce un tono giocoso e non convenzionale. «Mi chiamo Lucie e sono francese», dico quando mi viene chiesto il mio nome. Evitiamo le strade più turistiche: di ciò che la gente viene a vedere ad Asakusa, non si vede pressoché niente, se non di sfuggita, per errore. «Qui una volta sorgeva un konbini di una catena adesso scomparsa. Miracolosamente, mia nonna ne conservava vari sacchetti nella sua soffitta: eccovene un esemplare da portare a casa», dice la guida allungando a ogni partecipante del tour sacchetti che, si scoprirà dopo, uno del collettivo ha confezionato ad hoc. «Quest’albero, invece, è uno dei simboli assoluti di Asakusa perché…» ci indica con enfasi un albero che, in realtà, non ha nulla di iconico e che, diversamente, nessuno di noi avrebbe notato. «Venite qui, mettiamoci in cerchio. Ecco, dovete sapere che questo libro, di uno scrittore locale, risulta leggibile solo ai puri di cuore», afferma facendo girare di mano in mano un volume (la cui copertina è stata realizzata appositamente da un artista di «false copertine»). Le pagine, in realtà, sono tutte bianche e – tra giochi di parole, frasi argute, storie inventate, commozioni fasulle – i partecipanti improvvisano a turno un commento su ciò che ci vedono scritto.
Quando, lo scorso anno, intervistai il fondatore del collettivo Matsuzawa Shigenobu, mi confessò che quel tour di bugie era inizialmente previsto solo come pesce d’aprile. «Poi, però, ha avuto un tale successo che adesso ne facciamo ogni settimana e vanno subito sold-out. Non sono così separate verità e bugia!». Del resto, quando uno pensa a un luogo più o meno famoso, emerge nella memoria sempre qualcosa che non è né grande né generale, bensì un dettaglio, un aneddoto, un episodio personale. Il ricordo di città, persone e periodi del nostro vissuto si appiglia alla musichetta di una vecchia pubblicità, a un incidente ridicolo, al prodotto di un’azienda che non esiste più o non è mai esistita, al ricordo di una chiacchierata con un amico. «Con questo tour io vorrei stimolare i cinque sensi, creare qualcosa che sia vicino alla realtà, ma che non sia vero». Matsuzawa ha ragione: le cose normali non le ricorda nessuno, sono una lista di cose senza sapore. Nel turismo di massa, poi, non si vede più nulla. La trasformazione che una visita come quella di Asakusa attua è, precisamente, il passaggio dalla passività all’attività. Sul momento viene costruita una realtà alternativa, diversa per ogni gruppo di persone che vi partecipa.
Ma poi, davvero queste storie possono considerarsi bugie? E le bugie sono per forza deleterie a una narrazione? In Simulacri e simulazione (Pgreco) Jean Baudrillard notava come, nella società contemporanea, la distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione (il simulacro) sia diventata sempre più sfumata. Baudrillard descrive come le simulazioni non si limitino a essere semplici copie della realtà ma, in certi casi, precedano la realtà stessa, creando un “iperreale” in cui i modelli e le immagini si fanno più reali del reale. Le storie hanno un potere di pervasione sull’immaginario umano. D’altronde anche lo storico Yuval Noah Harari in Sapiens: Da animali a dèi (Bompiani) dedica ampio spazio alle «finzioni condivise» (miti, religioni, leggi, nazioni, denaro) capaci di far cooperare gli esseri umani su larga scala. Il successo evolutivo dell’Homo sapiens risiederebbe precisamente nella capacità di credere e agire collettivamente sulla base di storie e narrazioni comuni, e la cui oggettività resta del tutto secondaria. Sono le storie, in buona sostanza, a plasmare la realtà.
Nel presentare le persone inevitabilmente le si riassume, lo stesso accade ai luoghi e alle esperienze. La loro capacità di rimanere nel nostro immaginario è una partita che si gioca sul posto, nell’esatto momento in cui li si accoglie nella nostra memoria, qualcosa che ha a che fare con l’interazione e con il coinvolgimento più che con le informazioni ricevute. L’idea di un «tour di bugie» si rivela, allora, un colpo di genio. L’appiattimento tipico dell’overtourism sparisce insieme all’assuefazione al quotidiano. È un invito diretto a non consumare passivamente la vita che abbiamo.