La Stampa, 30 luglio 2025
Francesco Repice: "In radio tra Ciotti e Benedetto XVI Con la mia voce fotografo le partite"
Questione di pelle. D’oca: quella che fa venire con le sue radiocronache. Tatuata: quella dei suoi fan. Gli mandano le foto: frasi, le sue, scolpite sugli avambracci, sulla schiena.
Francesco Repice, 62 anni e da 29 in Rai, pilastro di Tutto il calcio minuto per minuto, colonna sonora della Nazionale: da voce è diventato volto, da parola a scrittura.
Repice, come ci si sente nel ruolo di personaggio?
«La prima volta che mi hanno mandato la foto di un tatuaggio mi sono stranito: ma questi sono matti?».
E poi?
«Ho pensato che la mia responsabilità aumenta, che devo andare di sottrazione anche per evitare errori. Alla fine, però, mi sono sentito lusingato».
La sensazione è che ci sia molto lavoro dietro quel sali e scendi di voce, dietro quell’onda emotiva che accompagna l’azione. È così?
«Neanche tanto. C’è la passione, il pallone mi emoziona, il gesto tecnico mi conquista».
Si risente?
«Sempre e mi accorgo di tutte le stupidaggini che dico. Sandro Ciotti diceva: sotto le dieci cazzate sei a posto; sopra inizia ad essere un problema».
L’errore indimenticabile?
«Radiocronaca di un Brescia-Roma di Coppa Italia e per tutta la partita metto in porta del Brescia Castellazzi che invece neanche giocava. Non avevo controllato e la presunzione non ti perdona».
Quanto si prepara prima di un incontro?
«All’inizio tanto. Poi se vai a raccontare Real-Barcellona che cosa ti prepari a fare? Io devo raccontare quello che la gente non vede, non quello che la gente magari non sa. Guardo e scatto una fotografia con le mie parole. Statistiche e numeri riempiono i vuoti in telecronaca, io non ho vuoti».
La radiocronaca più emozionante?
«Finale di Champions 2011 Barcellona-Manchester United: Puyol si toglie la fascia di capitano e la cede ad Abidal tornato dopo un tumore, per fargli alzare la coppa. Indimenticabile».
In un post partita del Real Madrid, ha preso la parola “solo” per chiedere a Modric di non smettere di giocare. Perché?
«La mia generazione ha visto fuoriclasse e campioni che quella attuale solo si immagina. Modric è una perla rara, vorrei che i giovani non smettessero mai di goderselo».
Tifa Roma in maniera sfegatata eppure conquista anche i “nemici”. Il segreto?
«Fare servizio pubblico sarà anche una definizione abusata, ma è una questione molto seria. E si traduce nel trattare tutti allo stesso modo».
Mai insultato?
«Mai. Anzi, la mia soddisfazione più grande mi è arrivata dai tifosi della Lazio che prima di una partita hanno riproposto la mia radiocronaca del gol di Lulic, decisivo per battere la Roma in finale di coppa Italia».
Il servizio più difficile?
«Il giorno dell’omicidio Raciti dopo Catania-Palermo. Ero da solo, non avevo alcun collega con me, non mi davano notizie. E c’era di mezzo la vita di una persona».
Come ce l’ha fatta?
«Ripensando alla grande lezione che ci diede Bruno Pizzul la tragica notte dell’Heysel».
Capitolo maestri. I suoi?
«Ameri e Ciotti. Sandro è inarrivabile. Derby Toro-Juve: Toro avanti con un gol di Selvaggi, poi rimontato e battuto da una doppietta di Platini. Le parole con cui Ciotti racconta la delusione di Selvaggi sono poesia. Ma voglio aggiungere una cosa».
Prego.
«Tutto il calcio minuto per minuto è un prodotto unico a cui hanno lavorato e lavorano colleghi straordinari. Mi piace ricordare, per esempio, Piero Pasini, l’unico giornalista al mondo che raccontò dall’interno del Villaggio Olimpico nel 1972 l’assalto alla palazzina degli israeliani del commando di Settembre Nero».
Chi le manca di più dei colleghi scomparsi?
«Giampiero Galeazzi».
È vero che soffre la seconda voce in radiocronaca?
«No. Le seconde voci hanno messo le scarpe da calcio ai piedi, io l’ho solo sognato».
Radiocronache in situazioni estreme?
«Due. Dinamo Kiev-Inter (quella del Triplete): postazione all’esterno a nove sottozero e la gente che si alzava in piedi durante le azioni. E allo stadio del Vasco da Gama, una notte che non scorderò mai perché fu quella in cui morì mio padre».
Affetti: che cosa è Tropea?
«Il luogo dei miei genitori. il luogo dell’anima. La cerco in ogni angolo del mondo».
11 luglio 2021: l’Italia è campione d’Europa e nell’esultanza finale cita anche Tropea, “il borgo dei borghi”. Si era fatto prendere dal cuore?
«Avevo cominciato con Firenze, poi ho fatto il giro d’Italia e a quel punto l’emozione mi ha travolto e ci ho messo Tropea».
Ha amici nel calcio?
«Amici è una parola grossa. Quelli veri, indovini, stanno a Tropea. Ho ottime frequentazioni, con Allegri per esempio mi trovo bene».
Come è entrato in Rai?
«Sostituendo una collega in maternità. Lavoravo al Popolo e il direttore politico era Sergio Mattarella. Sì, proprio lui, capacità di analisi straordinaria».
La partita che avrebbe voluto commentare?
«Non una partita ma due eventi che hanno fatto la storia dello sport: il duello Ali-Foreman a Kinshasa, The Rumble in the jungle. E Jesse Owens ai Giochi di Berlino».
Ha raccontato i fenomeni del calcio, ne scelga uno fuori dal campo.
«Federica Pellegrini. Mi ha sempre affascinato vedere nei suoi occhi il sacrificio per raggiungere il risultato».
La radiocronaca al tempo della Var: come si sopravvive al tempo sospeso?
«Ancora Ciotti. Ci diceva: “Immaginate di avere uno zaino sulle spalle pieno di parole, pescate da lì. E per farlo, leggete. Tutto, dalle pubblicità ai libri"».
Che cosa sta leggendo?
«Mi ha conquistato Le vie della Katana, una serie di racconti di cronaca nera. Poi, certo, ho avuto il periodo Bukowski e Miller».
Rito scaramantico prima delle partite?
«Nessuno, se non dormire. E arrivare molto presto alle partite, per anni ho vinto il premio transenna».
Per farla studiare sua madre la mandò in collegio a Cosenza: per questo da autodidatta si è appassionato alla teologia?
«Mi ha sempre affascinato, ho letto i libri di Benedetto XVI e dei teologi della Liberazione».
In autunno sarà in tour nei teatri delle grandi città: per raccontare che cosa?
«Tutto quello che lo ha appena detto».
Che farà nella seconda vita?
«Quello che faccio ora appena posso: il pescatore a Tropea».