Corriere della Sera, 30 luglio 2025
«Il mio Dante»
Fare arte significa rendere le persone più libere. Ne è convinto Julian Schnabel, lui che nel suo nuovo In the Hand of Dante, ha liberato perfino Dante Alighieri, facendolo viaggiare nel tempo e rivivere in Nick Tosches, nella complessa vicenda che racconta nel suo romanzo del 2002. Schnabel ha aggiunto poesia e visione al film, girato in Italia, che verrà presentato fuori concorso a Venezia, avendo forse riconosciuto i sentimenti che muovono un artista nella sua ricerca. Non importa in che secolo viva.
Anche lei, ai suoi inizi, è venuto in Italia per vedere i quadri che aveva studiato.
«La prima volta è stata nel novembre del 1976. Volevo vedere i dipinti di Giotto, Duccio di Buoninsegna, Piero della Francesca, e ho iniziato il mio viaggio: Milano, Venezia, Padova, Arezzo, Roma. Ero a mio agio in quei luoghi e ci ho passato una buona parte della vita. Per questo è stato naturale ripercorrere i miei passi attraverso la storia di Nick Tosches, che a sua volta stava ripercorrendo i passi di Dante».
Non aveva soldi, solo una grande passione.
«Avevo 24 anni ed ero decisamente povero. Avrei dato qualsiasi cosa per un bocconcino di mozzarella. Un giorno un imprenditore, Ruggiero Jannuzzelli, comprò dieci miei quadri per 3mila dollari... ero così felice...».
Torna a dirigere un film in cui si parla di arte. Perché?
«Perché è l’unica cosa che conosco. Racconto l’arte, gli artisti e cosa comporta esserlo. La mia non è una interpretazione della Divina Commedia, nemmeno un’analisi. Dante è un punto di partenza da cui iniziare a riflettere».
Questo testo può parlarci anche oggi?
«Winston Churchill ha detto che le persone non dovrebbero leggere certi libri quando sono troppo giovani, mentre la maggior parte delle persone, in Italia, legge la Divina commedia a scuola. Io penso che abbiamo la possibilità di scegliere tra il Paradiso e l’Inferno qui, da soli. In base a chi ci avviciniamo. Tutto ciò che abbiamo è l’eterno presente».
Ha girato il film in Italia.
«Era necessario. In Italia c’è un’atmosfera unica. Negli Stati Uniti tutti sanno chi era Abramo Lincoln, ma in Italia ognuno sa chi è Caravaggio. Quando vivevo a Milano e la gente vedeva i miei vestiti sporchi di pittura, erano tutti gentili, mi regalavano dei pezzi di pizza o mi permettevano di lavorare in alcuni spazi comuni. Per questo sono estremamente felice di presentare il film a Venezia, dove pure è stato in parte girato».
Dante è patrimonio nazionale. Non è un film rischioso?
«Era successo anche con Van Gogh, ma il mio intento è farlo parlare attraverso il mio sguardo. Non abbiamo girato un documentario ma mostrato una possibilità. Dante avrebbe mai potuto reincarnarsi in un romanziere? Per questo molti attori del film hanno un doppio ruolo: Oscar Isaac è sia Nick Tosches che Dante, Gal Gadot, sia la moglie di Alighieri che la donna che incontra nel presente».
Dante non ha mai scritto una riga su sua moglie, concentrandosi sulla figura idealizzata di Beatrice. Lei qui fa l’opposto?
«Ci sono voluti 700 anni per capirlo. Ma finalmente sente la sua voce. Tutto è un viaggio onirico: Antonioni diceva di volersi liberare dalla logica di una scena che si appoggia alla successiva, pensava fosse più importante la verità della logica. Io penso lo stesso. La verità, poi, non deve per forza corrispondere alla realtà».
E come si distingue, quindi, dalla finzione?
«Quando guardi un dipinto di Van Gogh, la realtà è solo quella che esiste nel dipinto. E lo stesso vale per il mio lavoro: non starò qui per sempre, ma i miei lavori ci saranno, finché la Terra non esploderà. Fino a quel momento trascenderanno il tempo».
L’arte è un varco?
«La morte ha spinto molti artisti a interrogarsi. Spaventa o semplicemente interessa».
Nel suo caso?
«Mi ha terrorizzato per tutta la vita. Penso davvero che le persone inizino a fare arte perché sono ossessionate dalla morte. L’arte va oltre. È quello che racconto nel film».
Il denaro che ruolo ha?
«Non ho mai dipinto quadri per soldi. Non ho mai cercato di compiacere nessuno tranne me stesso. Penso ci sia una differenza tra arte e commercio. Devo il mio successo al fatto che non dipingo per fare soldi, non faccio film per fare soldi. Faccio dipinti per vedere come appaiono, giro film per raccontare storie che volevo raccontare».
Eppure molte persone, oggi, si definiscono artisti.
«Ci sono artisti scarsi e altri bravi. Così come c’è chi apprezza l’arte e chi pensa solo a cosa ottenere in cambio. Poi non è detto che grandi artisti siano per forza grandi uomini: anche la vita di Dante è stata un discreto disastro. Si era impegnato in politica ed era andata male, era fissato per Beatrice, il che non lo rendeva un grande marito o padre. Ma alla fine mi ha attratto di lui proprio la sua imperfezione».
Ha scritto il film con sua moglie, Louise Kugelberg. Uno dei temi centrali del film è l’amore?
«Sicuramente... ora inizierò a piangere. L’amore è in primo luogo quello che ho ricevuto dai miei genitori, persone adorabili che non sapevano un accidente di cosa facessi o di arte. Ma mi hanno sostenuto, perché mi amavano. Ora lavoro con mia moglie: produrre qualcosa di nuovo insieme crea un vero legame. E credo che questo legame sia il sottotesto di tutto il film»