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 2025  luglio 30 Mercoledì calendario

Intervista ad Alessio Vlad

Avere un macigno sopra la testa, un padre ingombrante, è il destino dei figli d’arte. Lo è stato anche per Alessio Vlad, romano classe 1955, compositore e da trent’anni direttore artistico tra festival e teatri d’opera: Ravello, Genova, Ancona, Napoli, Spoleto, Roma, Parma. Suo padre era Roman Vlad, insigne intellettuale cosmopolita e motore artistico di tanti teatri, dalla Scala a Firenze. Per Alessio, grandi privilegi e grandi conflitti.
Quando è entrata la musica nella sua vita?
«Subito, era in casa, attraverso mio padre. Lo seguivo, gli chiedevo di portarmi con lui. I primi ricordi mi riportano al Maggio Fiorentino del ’64, dove era direttore artistico, Il Naso di Sostakovich con la regia di Eduardo De Filippo, Salome nella prima versione francese con la regia di Piscator. Avevo 9 anni».
Non è normale, a 9 anni…
«Non è normale soprattutto assorbire in modo famelico da ricordare tutto. Sono stato fortunato e privilegiato, ho studiato Storia dell’arte con Cesare Brandi, ho lavorato come assistente di grandi personaggi. La cultura è fatta di connessioni e racconti».
Franco Zeffirelli?
«Per Jane Eyre mi impose a Weinstein, il produttore finito in galera per le aggressioni sessuali, che bocciava tutti i miei temi, lo faceva per un gioco di potere. Franco, che mi fece conoscere il mondo anglosassone, gliene rimandò uno, disse: “Questo va bene”, senza accorgersi che l’aveva già ascoltato».
Eduardo?
«Ero a Spoleto per la versione operistica che Nino Rota fece di Napoli milionaria. Avevo l’esame finale di composizione, gli chiesi il permesso di lasciare le prove. Mi rispose no, lapidario, senza aggiungere altro. Una grande lezione, diceva sempre che il teatro è disciplina e sacrificio, gelo e crudeltà».
Leonard Bernstein?
«Anche come uomo era imprevedibile. A New York una volta andò a trovarlo Mimì Barba che era il suo autista quando andava a Positano da Zeffirelli. Bernstein si mise il berretto da autista e gli disse: mi hai sempre spupazzato te, ora ti porto in giro io, sali in macchina. Lo ricordo nel 1981 a Berlino per la Nona di Mahler. Aveva l’orchestra contro».
I leggendari Berliner.
«Era il regno di Karajan, che aveva il suono levigato, sontuoso mentre Bernstein inseguiva un Mahler violento. Lenny era l’antagonista di Karajan. Ero suo assistente e alle prove mi confidò: faccio un ultimo tentativo, se non va bene me ne vado. Finì in un trionfo. Poi quando cadde il Muro mise insieme tutte le orchestre coinvolte nella guerra fredda e per la Nona di Beethoven sostituì la parola gioia con libertà».
Bernardo Bertolucci?
«Sono quello che ha curato più colonne sonore per lui.Per La luna feci anche l’attore. La colonna sonora è un commento, ma in L’assedio era parte del racconto visto che è la storia di un compositore che seduce una donna attraverso un brano musicale. Scrissi un pezzo percussivo con un’anima africana, che poi si piega alla melodia. Vinsi il Globo d’oro. Cercai di convincerlo a fare una regia lirica, mi disse se andrai a lavorare nella mia Parma accetterò, ma sarà per il Così fan tutte e non per Verdi anche se è un festival verdiano. Io a Parma ci sono andato, Bernardo morì prima».
Riccardo Muti?
«Nel 2010 mi chiamò alla direzione artistica dell’Opera di Roma, dove sono rimasto per 13 anni. Nel primo incontro mi fece una raccomandazione che a sua volta aveva ricevuto alla Scala dal suo maestro Antonino Votto: “Le vedi queste mura? Hanno occhi e orecchi. La prima qualità è la riservatezza”».
Franco Ferrara era meno noto ma è tuttora adorato nell’ambiente.
«Meno noto perché, non riuscendo a gestire la parte emotiva, sveniva sul podio e dovette limitare il podio alle colonne sonore, Il Gattopardo, Bellissima… Era l’esatto contrario di Celibidache, altro mio mentore. A 70 anni sono un sopravvissuto, oggi mancano punti di riferimento».
Vlad, chi era suo padre?
«Era nato a Cernauti, in una terra franca, quando la Bucovina stava passando dall’impero austroungarico ormai disgregato al nuovo Stato romeno. Arrivò a Roma nel 1938 con un viaggio avventuroso passando dalla Cecoslovacchia che stava per essere occupata da Hitler. Non aveva 19 anni e non conosceva letteralmente nessuno. A Cernauti aveva suonato Alfredo Casella, il cui benefattore era stato Enescu in Romania. Lo prese a lezione al Conservatorio di Santa Cecilia benché la classe fosse chiusa e gli presentò De Chirico, Savinio, Petrassi, Argan, il giovane Guttuso… Nel ’43 rielaborò in chiave antifascista L’Opera da tre soldi con i giovani Gassman, Squarzina e Salce. Il regista finì in carcere, mio padre (che suonava il piano a quattro mani con Maria José, la regina moglie di Umberto II), si salvò grazie a monsignor Montini, futuro Paolo VI. Ha vissuto quel mondo lì».
Che rapporti, tra lei e lui?
«A mio padre devo moltissimo, ma furono difficili. Nella vita professionale non mi ha mai appoggiato né favorito, non ricordo un complimento. Però mi ha forgiato. Scattavano delle dinamiche da competizione anagrafica: io ero giovane e lui invecchiava. Col senno di poi, i vantaggi predominano ma è stato pesante. Da ragazzo ero timido, appartato, studiavo e basta. Chi mi ha dato quella sicurezza che in famiglia non avevo è Mata, mia moglie, una quercia».
Sua madre era Licia Borrelli, sorellastra di Francesco Saverio Borelli, il capo di Mani Pulite.
«Era archeologa. Donna fredda, aveva 2 anni quando morì sua madre, suo padre si risposò e nacque Francesco Saverio, magistrato severo con principi ottocenteschi. Di Pietro era una sua creatura, ci diceva che aveva il merito di introdurre l’uso dell’informatica nelle indagini, pur essendo in disaccordo col suo metodo, quello di sbattere in galera gli indagati, ma non fece mai nulla per limitare quel modo di fare. In famiglia c’era contrasto perché mio padre, con Paolo Grassi e Strehler, era legato al partito socialista finito nel mirino del pool».
Il suo mestiere di direttore artistico è l’ultimo dei mohicani, in estinzione.
«È come lavorare al Pronto Soccorso. Bisogna gestire le emergenze. A Salisburgo per il Nabucco con Riccardo Muti saltò la protagonista. Proposi Anna Pirozzi, allora del tutto sconosciuta. Direttore artistico del Festival era Pereira che al pubblico, annunciando la sostituzione, prima dell’inizio disse: l’Opera di Roma ha fatto arrivare una cantante da Napoli, buona fortuna. Micidiale. Ma Anna ebbe molto successo. Ricordo ancora Muti quando andò via dall’Opera di Roma in disaccordo coi sindacati mentre si programmava Aida. Fu una lotta contro il tempo, dovevo riusare alcuni cantanti del cast compatibili per un titolo diverso, e fu Rusalka di Dvorak. A Roma c’era Carlo Fuortes, l’Opera veniva da un deficit enorme del suo predecessore, 14 milioni, studiai un piano di risparmio ma lui obiettò: tagliamo tutto ma non sulle produzioni. Lì capii che è un grande sovrintendente».
Quali segni ha lasciato?
«Ad Ancona, che non è il centro della musica, proposi Henze e Hindemith. Ma la mia prima esperienza come organizzatore risale agli Anni 90 al Festival di Ravello, dove tuttora lavoro, e dove predomina Wagner per ragioni storiche. Portai nel ’96, su quel palco magico sospeso tra cielo e terra, il Parsifal con Gergiev e Domingo».
Ora al Regio di Parma, nella fossa dei verdiani purosangue, come va?
«Mi sembra di essere tornato all’atmosfera dell’epoca d’oro di Spoleto. Il pubblico è verace, partecipe, vitale, un tifo da stadio, un modo di vivere la lirica dell’800 ma è un folclore più avveduto di quanto si dice, con una grande consapevolezza della tradizione. Agli intervalli si beve lambrusco e si mangiano tortelli nei retropalchi, dove si parla di musica in un’atmosfera spontanea. E poi c’è un rapporto continuo tra festival e edizioni scientifiche, fondate sui manoscritti».
Come si fa a non prendere chili a Parma?
«Ci vuole un grande atto di volontà. Io sono addirittura dimagrito».