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 2025  luglio 29 Martedì calendario

Intervista a Francesco Micheli

l primo quadro all’ingresso di casa di Francesco Micheli è una Gioconda realizzata con la tecnica della hair art: fatta, cioè, con dei fili colorati. «Trenta euro, su Amazon», dice lui, uno dei più noti e ricchi finanzieri italiani. «A chi straparla di pittura senza averne la competenza, la presento come l’opera di un immaginario artista mitteleuropeo». Ci cascano? «In molti sì». Non sorprende: dopo quel quadro inizia una collezione in cui ai caravaggisti si affiancano tele di De Chirico e Balla; al centro della stanza, invece, c’è uno Steinway da concerto nero: l’altra passione di Micheli ereditata dal padre Umberto. I tasti di quel pianoforte, a 87 anni, Micheli continua a pigiarli, come racconta ne Il capitalista riluttante, l’autobiografia pubblicata da Solferino in cui passa in rassegna più di mezzo secolo di finanza e cultura italiana. Il libro si apre con un volo in cui ci sono due dei padroni dell’Italia del dopoguerra, Eugenio Cefis ed Enrico Cuccia, uno a capo di Montedison, l’altro di Mediobanca.
Partiamo da Cuccia.
«Alla vista di un fotografo, si nascondeva dietro la borsa con quell’espressione truce che poi i giornali pubblicavano. In privato, invece, era un battutista inimmaginabile, capace di cattiverie spietate. Diceva che appartenevamo a giardini zoologici diversi: ho sempre avuto il buongusto di non rispondergli che ero orgoglioso del mio e non del suo».
La sua famiglia non aveva nulla a che spartire con la finanza.
«Mio padre insegnava al conservatorio: un uomo essenziale quanto il bianco e nero dei tasti del suo pianoforte. Era mamma a occuparsi della quotidianità: aveva capito che il successo si prepara fin dai tempi della scuola».
E infatti lei ha studiato nei migliori istituti di Milano. Intanto però, a 14 anni, aveva iniziato anche a lavorare.
«Prima fattorino e scrutatore del Totip, poi venditore di tappeti cinesi per un prete, quindi comparsa alla Scala. A un certo punto, finii nella bassa pavese ad accompagnare al piano Edy Campagnoli, la spalla di Mike Bongiorno, in un Lascia o raddoppia? dei poveri. Tutto pur di racimolare quattrini: non perché mi mancassero, ma per ansia d’indipendenza».
Fu per questo che cominciò a lavorare in Borsa?
«Iniziai grazie ad Aldo Ravelli, il re incontrastato degli agenti con un’incredibile storia alle spalle: quindici anni prima era riuscito a fuggire da Mauthausen corrompendo un kapò con la promessa, fatta in dialetto lombardo, che se fosse sopravvissuto gli sarebbe stato riconoscente. E così fece: ogni anno quell’uomo si presentava a Milano per riscuotere la paghetta».
Le cose, intanto, a Piazza Affari girarono bene: presto lei divenne “Franz la Volpe”.
«Servivano velocità e tempismo, ma a un certo punto a comprare e vendere non mi divertì più; così, alla fine degli anni ’60, lasciai».
E andò a Roma all’Imi, l’Istituto mobiliare italiano.
«Un cambiamento radicale. Le cene milanesi erano noiosissime: da un lato, le signore a parlare di bambini; dall’altro i maschi a parlare di Borsa. Roma, invece, era un paradiso: incontravi chiunque persino quando andavi a mangiare il gelato. E poi lì conobbi tutti i padroni del vapore: Eni, le banche, il Vaticano. Due anni dopo, però, tornai: fui chiamato alla Montedison di Cefis».
Uno degli uomini più potenti d’Italia, su cui peraltro è fiorita una fitta trama di leggende.
«Ma io, negli anni in cui ci ho lavorato insieme, non ho mai colto qualcosa che fosse pro domo sua. Proprio in Montedison incontrai per la prima volta Berlusconi. Cercava Cefis per farsi appoggiare per una carica paraistituzionale. Fece tre ore di anticamera senza essere ricevuto: alla fine, per rimediare, andai io».
Il Cav vestiva già in doppiopetto e cravatta?
«Macché. Piuttosto sembrava un chitarrista: i capelli, davanti radi, erano lunghi fino alle spalle.
Non lo rividi per molto tempo, ma misteriosamente restammo amici. Tanto che, anni dopo, mi coinvolse nella mediazione durante la cosiddetta “guerra di Segrate” tra lui e De Benedetti».
Di De Benedetti, nel libro, lei scrive che è stato un imprenditore che avrebbe potuto portare l’Italia a livelli mai visti. Cosa lo frenò?
«La volontà di andare subito all’incasso. Il finanziere Svetlich, che lo conosceva bene, diceva che quando sarebbe morto sulla sua lapide avrebbero scritto: “Cadde un soldino, perì nella mischia"».
È stata anche la sua filosofia?
«No. Ha presente quei bambini che per giocare si travestono da cowboy come nei western? Ecco, ho fatto sempre quella cosa lì».
Nacque così Fastweb?
«Avevo fiutato l’importanza del digitale, e annusato l’affare. Ebbi 800 milioni dalle banche in cambio solo di un racconto: una cosa oggi inimmaginabile
. Ne uscii in tempo, appena mi resi conto della sbronza da successo dell’ad Silvio Scaglia: come tutti i manager della sua generazione, non aveva mai vissuto una crisi. Che poi, puntualmente, arrivò».
L’amore più lungo è stato quello per il Teatro alla Scala: è rimasto nel cda 25 anni.
«Ho il vanto di essere stato fatto fuori da Marcello Foa, il papà di uno dei comunicatori di Salvini. Una persona, peraltro, assai simpatica».
Dicono che in realtà lei volesse fare il Sovrintendente.
«Una leggenda nata anni fa, quando Pisapia, da sindaco, stava per prendere Alexander Pereira. Lo avvertii che sarebbe stata una scelta disastrosa, proponendogli di prendersi più tempo: nell’attesa l’avrei aiutato col braccio sinistro, senza incarichi».
Come reagì?
«Anziché dirmi che aveva già deciso, temporeggiò. Da avvocato, ha sempre rinviato tutto: causa che pende, causa che rende».
E su Sala invece? Che valutazione dà dell’inchiesta sull’urbanistica?
«È stata da poco avviata, vedremo gli sviluppi. Forse, il sindaco avrebbe potuto arginare meglio l’ascesa immobiliarista della città».
A proposito di quell’ascesa: lei è socio al 7% nella holding che controlla la Coima di Manfredi Catella, finito nell’inchiesta.
«Rispetto il lavoro dei giudici, ma fatico a trovare il Catella che ho conosciuto nelle ricostruzioni di queste settimane. Le radici di questa inchiesta sono comunque da cercare nell’Expo: un razzo propulsore che ha inserito Milano tra i centri mondiali di turismo e attività immobiliari, senza però portare un briciolo di attenzione per la cultura».
A 87 anni è ancora in pista: presidente di Genextra, la holding che ha fondato per investire nella ricerca genomica. Come vive il tempo che passa?
«Non me ne frega niente: finché la va, la va. Non ho la vocazione all’immortalità».
Nessuna paura della morte?
«Solo un disagio, ricorrente: ogni volta che assisto alla scomparsa di grandi personaggi, penso con disperazione alla perdita di tutto quel sapere. Ecco, se potessi farei questo: prenderei un chip e trasferirei ai neonati quella saggezza».