la Repubblica, 29 luglio 2025
“Una questione morale” in Israele cresce il fronte dei contrari alla guerra
Adi Ronen Argov ha acceso la luce quando nessuno voleva vedere. In Cisgiordania, documentando le giovani vittime dell’occupazione israeliana. E dopo il 7 ottobre, raccogliendo metodicamente i nomi, i volti, le voci dei bambini uccisi nell’infernale sequenza di guerre che ha investito Israele e la Palestina: gli israeliani massacrati da Hamas; i libanesi e gli iraniani sepolti dalle bombe di Israele. Soprattutto, i bambini di Gaza.
Forcibly Involved, il sito che ha fondato, è diventato l’unico archivio- testimonianza in ebraico delle piccole vittime della Striscia, commemorate senza infingimenti, mostrando i corpi, il sangue. «Abbiamo raggiunto un livello di violenza e crudeltà tale che cercare di rendere le cose accettabili per chi si rifiuta di sapere è come sostenere la tossicodipendenza di qualcuno. Non abbellirò la realtà», spiega ad Haaretz questa psicologa di 59 anni, che è diventata da sola un sito di informazione.
Le foto dei bimbi di Gaza hanno aperto una breccia: stampate su grandi cartelloni, accompagnano ora le manifestazioni contro la guerra sempre più partecipate in Israele. Puntellano gli incroci delle città come Tel Aviv, i parchi di Gerusalemme, l’ingresso delle basi militari. Sono le facce del dissenso che monta in Israele contro la guerra di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir, straripa oltre le piazze, tocca l’élite, gli intellettuali, i media. Per la prima volta, le immagini della fame a Gaza bucano le reti televisive mainstream, appaiono sul Canale 12,cheè pubblico. Gruppi di riservisti bruciano in strada le lettere che li richiamano al fronte, perché, dicono, «non vogliamo renderci complici». I numeri dei suicidi tra i soldati crescono: 21 nel 2024, 17 in questa prima metà dell’anno.
I rettori di cinque università israeliane scrivono al premier perché con urgenza metta fine alla «grave crisi della fame» che sta «causando danni immensi ai civili, compresi bambini e neonati», nella Striscia. E per la prima volta una organizzazione israeliana, B’Tselem, che da anni si occupa di monitorare le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, pubblica un rapporto che parla apertamente di «genocidio» a Gaza. Meron Rapoport è da molti anni coscienza critica di Israele, intellettuale di sinistra, giornalista pluripremiato di Local Call, che non ha mai ceduto alla logica della separazione. Nel 2012 cofondò il progetto israelo-palestinese A Land for All: ovvero, una terra per tutti. «L’opposizione alla guerra è maggioritaria nella società israeliana da oltre un anno, ma nelle ultime settimane le immagini orribili che arrivano da Gaza hanno cambiato qualcosa nel profondo, quelle immagini della fame esistono nella memoria collettiva degli ebrei, nella Shoah», ci dice. Il rifiuto è andato oltre la sinistra pacifista. Già a dicembre fecero rumore le parole di Moshe Ya’alon, ex capo di stato maggiore e ministro della Difesa, che aveva parlato di pulizia etnica, come più di recente ha fatto l’ex premier conservatore Olmert additando i «crimini di guerra» commessi dall’esercito nella Striscia. Da marzo, quando Netanyahu decise di rompere l’accordo con Hamas e riprendere le operazioni militari, la slavina si è fatta valanga, «è cresciuta l’opposizione alla guerra, ma anche l’opposizione morale a ciò che accade a Gaza», osserva Rapoport.
Due editoriali raccontano lo smottamento. Il primo l’ha scrittosuHaaretz Ehud Barak, l’ex capo di Stato maggior e dell’esercito ed ex premier laburista, che chiama alla disobbedienza civile e allo sciopero generale per disarcionare un governo che sta trasformando Israele in uno «Stato paria», spingendolo verso una «dittatura» guidata dalla vesione messianica di «Ben-Gvir e Smotrich, dall’avidità degli ultra-ortodossi e dagli interessi personali di Benjamin Netanyahu».
L’altro, esplosivo, lo firma Dani Dayan, il presidente dello Yad Vashem, il più importante archivio di memoria al mondo sull’Olocausto. Dayan non è un pacifista. Vive negli insediamenti illegali in Cisgiordania, è stato il capo del consiglio dei coloni nella West Bank, anche se nell’ala liberale del movimento. Rifiuta l’accusa di genocidio, «una pericolosa distorsione», ma invoca il ritorno ai principi morali dello stato ebraico. «Ci sono molti uomini, donne e bambini senza alcun legame con il terrorismo che stanno subendo devastazione, sfollamenti e perdite. La loro angoscia è reale e la nostra tradizione morale ci obbliga a non voltare le spalle». Accusa l’estremismo dei leader che fanno «appello a bombardamenti indiscriminati, alla negazione degli aiuti umanitari o alla cancellazione della distinzione tra civili e terroristi», principi contrari «ai nostri valori democratici, umani ed ebraici».
Il suo intervento pesa. «Anche se molti israeliani erano e restano convinti che a Gaza “non ci siano innocenti”, quelle foto hanno un impatto profondo così come lo ha il giudizio dell’Occidente, e il no che si sta alzando da parte del mondo che non è solo teorico ma pratico», dice Rapoport. Turisti israeliani vengono respinti sulle coste greche, cacciati dai ristoranti italiani e spagnoli. «L’Europa non è solo una meta turistica, è il luogo da cui in parte veniamo. La guerra a Gaza sta diventando una minaccia all’identità di Israele».