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 2025  luglio 27 Domenica calendario

La sessualità? Uno spettacolo (di massa)

Mimì Bluette, fiore del mio giardino è il titolo di un romanzo di Guido da Verona (Guido Abramo Verona, 1881-1939) che spopolò nel pieno della Prima guerra mondiale. Non parla del terribile momento storico, di eroismi o sacrifici. Racconta le avventure amorose di una bellissima ballerina, Cecilia Malespano, in arte Mimì Bluette, che fa fortuna e inanella una sequela di amanti in una Parigi cosmopolita. Fino a quando si innamora di un avventuriero, che però l’abbondona d’improvviso per arruolarsi nella Legione straniera. Mimì si getta allora in una disperata e inutile ricerca nella lontana Algeria, per ritornare indietro cambiata, e infine suicidarsi.
Il romanzo fece un enorme scalpore e fu un bestseller per anni, anche per i molti dettagli licenziosi, abilmente utilizzati dall’autore, il «d’Annunzio delle segretarie e delle manicure», come lo bollarono i critici.
Ma perché tanto successo? Al di là dell’autore, questo è un caso eclatante che testimonia la presenza di un nuovo genere di consumo. Produzioni con contenuti erotici esistevano da sempre; basti pensare a quelle di Giovanni Boccaccio e Pietro Aretino, o più tardi Giacomo Casanova, per citare le più note; nel campo dell’arte, poi, immagini di nudità in stile antico e mitologico erano comuni.
In parallelo, a livello popolare, circolavano disegni e stampe erotiche grossolane, spesso caricaturali. Ma si trattava di un mercato limitato, per lo più clandestino. Le cose cambiarono con la diffusione massiccia della stampa da metà Ottocento, che favorì la proliferazione di libri e opuscoli a basso prezzo e in grande quantità; anche quelli di soggetto erotico, venduti di nascosto nelle botteghe o da ambulanti.
In parallelo si aprì un formidabile secondo canale: quello delle fotografie di nudo. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, le fotografie cominciarono a invadere la sfera quotidiana, comparendo in libri e riviste, sostituendo progressivamente i ritratti pittorici, illustrando fatti di cronaca e paesaggi lontani. Ma anche proponendo fotografie commerciali erotiche di enorme diffusione. Si trattava in genere di nudi femminili, realizzati da fotografi professionisti o amatoriali, che ritraevano giovani donne semisvestite, in salotti e camere da letto; o anche – secondo la moda del tempo – presunte odalische nell’harem, poco protette dai numerosi veli, bellissime e misteriose. Con il tempo le immagini si fecero più audaci e i nudi integrali, comprese foto di ragazzi. In assoluto, il prodotto più venduto, facile da produrre e smerciare, erano le «cartoline». Non si trattava di vere cartoline da spedire, visti i contenuti, ma di stampe con il formato delle ormai diffuse carte postali, prodotte a migliaia e comprate a pochi spiccioli.
Si può dire che l’evoluzione tecnica della stampa e della fotografia fu alla base della creazione di un mercato di massa di produzioni pornografiche. Inutile dire che si trattava di lavori proibiti, ritenuti contrari alla pubblica decenza e alla morale cattolica, nonché fonte di corruzione per i giovani; per questo erano continuamente sottoposti a sequestri, con scarsi risultati. E non erano solo le autorità pubbliche a perseguire questo commercio: lo fecero anche numerosi trattati medico-scientifici, a cavallo fra Otto e Novecento, spiegando come la pornografia si legasse a perversioni e devianze sessuali, a volte di tipo patologico, mettendo a rischio la salute dei giovani e della nazione stessa.
Perché una simile esplosione? Michel Foucault ha suggerito che la presenza di un forte tabù sulla sessualità abbia innescato per reazione una vasta diffusione di discorsi e immagini sul tema. In altre parole, più la donna era confinata tra le pareti domestiche, isolata e nascosta, e più gli abiti la rivestivano quasi interamente, più si ingigantiva il consumo di immagini del corpo delle donne. Le possibilità di riproducibilità tecnica fecero il resto.
Dopo la guerra, un ulteriore momento di crescita si ebbe con il fascismo, soprattutto per le immagini coloniali, pur presenti da tempo. Per alcuni anni vi fu addirittura una politica ufficiale di diffusione di foto di «belle africane» per invogliare gli italiani ad avventurarsi nelle imprese coloniali. Persino su riviste serie come «L’Illustrazione italiana» o «La Domenica del Corriere» apparvero immagini di ragazze africane a seno nudo, mentre le canzonette del periodo (Faccetta nera) facevano eco nel suggerire la presenza di donne sensuali e disponibili in attesa dei colonizzatori. Tutto ciò, salvo un repentino dietro front con le leggi razziali del 1938.
La seconda metà del Novecento vide la continuazione di questa industria, con l’adeguamento alle nuove tecniche di comunicazione. Finita l’epoca delle cartoline, furono le riviste a cavalcare l’onda, da «Playboy» e «Penthouse» fino a «Le Ore» e affini. Con una novità: in un’atmosfera di relativa maggiore libertà di circolazione, le critiche ora cominciarono a venire dalle donne. La pornografia era da condannare non in nome della moralità o della salute medica, ma perché mostrava un rapporto di potere e dominazione dell’uomo sulla donna. Era insomma espressione dello sguardo maschile sulla sessualità, del suo modo di vedere i rapporti tra i generi, ignorando il punto di vista delle donne.
S’arriva così al XXI secolo, con le piattaforme web in primo piano (Youporn, Pornhub...), in un mercato sempre più di massa, differenziato, lucroso. Un filo rosso unisce però tutte queste esperienze: la sessualità intesa come spettacolo che s’innesta per-fettamente nella società dei consumi.