Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  luglio 27 Domenica calendario

Nuova Caledonia. Un (quasi) Stato dentro lo Stato. Il rebus francese

Il 12 luglio scorso a Bougival, non lontano da Parigi, è nato un nuovo Stato: o forse no. Sorgeva l’alba quando, al termine di una settimana di estenuanti negoziazioni, il ministro francese per i territori d’Oltremare, Manuel Valls, i principali rappresentanti delle forze politiche «lealiste» e «indipendentiste» hanno firmato un Accordo in cui «si conviene di dare vita a un’organizzazione istituzionale sui generis denominata “lo Stato della Nuova Caledonia”, all’interno dell’insieme nazionale, inscritto nella Costituzione della Repubblica francese» (Articolo 1).
Uno Stato dentro un altro Stato il quale, tuttavia, non è definibile né come Stato federale né come Stato Associato (due forme politiche assai diffuse), ma – appunto – come sui generis.
L’antropologo americano Clifford Geertz sosteneva che concetti in apparenza chiari come «Stato», «Popolo» o «Nazione» si caratterizzano in realtà per un’«ostinata ambiguità». Il nuovo Stato della Nuova Caledonia non è né indipendente né una Regione o un Paese dell’Oltremare francese, ma una forma ibrida, una creatura inedita della biodiversità politica mondiale.
Le cicatrici materiali delle rivoluzioni si curano in fretta. Atterrato all’aeroporto di Tontouta, a una trentina di chilometri dal capoluogo Nouméa, non ritrovo più né il filo spinato né le postazioni militari difese dai sacchi di sabbia che avevano accompagnato la partenza dalla Nuova Caledonia nell’autunno dell’anno scorso. La strada che porta a Nouméa è stata riasfaltata e sono scomparsi gli aloni neri e le buche formate dai roghi di centinaia di automobili, nel maggio del 2024. Nessuna traccia dei barrage, gli sbarramenti formati da carcasse di veicoli, auto, tronchi abbattuti che avevano interrotto ovunque la circolazione. Alle porte del capoluogo, la sagoma bruciata del Decathlon e del locale birrificio riportano la memoria ai giorni della sommossa, animata soprattutto dai giovani di Nouméa.
Esasperati dalle diseguaglianze e da vite anonime e senza prospettive di futuro negli edifici dei logement social, i condomini popolari costruiti per accogliere la parte più povera della città, che coincide con il popolo nativo kanak e con gli oceaniani provenienti soprattutto dal piccolo arcipelago di Wallis e Futuna, i giovani avevano messo a ferro e fuoco la città. Erano andati in fumo i simboli del capitale globale, le scuole, i centri commerciali, i luoghi del loisir (palestre, piscine) frequentati soprattutto dai «bianchi» e alcune chiese cattoliche. Più di due miliardi di euro di danni, 14 morti per lo più kanak negli scontri con le forze dell’ordine, l’economia in ginocchio, i turisti scomparsi.
Quella rivolta, che qui tutti chiamano le 13 mai, «il 13 maggio», era scoppiata nel 2024 innescata da una scintilla politica, ovvero il tentativo, poi fallito, del governo francese di «scongelare» il corpo elettorale, aprendo la possibilità a molti métro (i francesi metropolitani) arrivati negli ultimi decenni e ai loro figli maggiorenni di votare nelle successive elezioni locali. Un provvedimento visto come il simbolo di un ritorno all’indietro, una nuova francesizzazione che tradiva l’impegno preso dallo Stato nel 1998 con l’Accordo di Nouméa di una progressiva e irreversibile marcia verso l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo nativo kanak.
Osservati da vicino, i processi di colonizzazione e di decolonizzazione sono molto più complessi di un’opposizione manichea tra oppressori e oppressi. Le forme dure di colonialismo creano quella che chiamo la «sindrome dell’uovo sbattuto»: impossibile tornare indietro o recuperare una forma originaria.
Se immaginiamo il colonialismo come un continuum che va dall’egemonia economica e culturale fino al genocidio, possiamo dire che quello subito dai kanak della Nuova Caledonia si situa nella direzione del polo più estremo.
Annesso alla Francia nel 1853, questo arcipelago del Pacifico ha subito la colonizzazione fondiaria, con la sottrazione di buona parte delle terre ai nativi; la colonizzazione di popolamento, con l’arrivo di decine di migliaia di europei, per lo più detenuti condannati al bagno penale, tra metà e fine Ottocento; gli autoctoni furono progressivamente confinati in tribù o riserve, con l’adozione del famigerato «Codice dell’Indigenato», già applicato in Algeria e abolito solo nel 1946 su pressione internazionale. Tra il primo arrivo di un europeo, James Cook nel 1774 e la fine del secolo successivo, la popolazione autoctona calò di più dell’80%, decimata da malattie, violenze, inedia.
Le nozioni europee di «civiltà» e «progresso» hanno colpito duro in questo paese dell’Oceania occidentale, umiliando la ricchezza culturale e linguistica delle popolazioni native che ancora oggi ritrovano a stento nella scuola qualche traccia della loro millenaria civiltà.
Il colonialismo non va confuso con la semplice presenza di una comunità venuta da altrove, altrimenti si finirebbe di riprodurre nozioni di «purezza» etnica estranee a gran parte dell’umanità. Gli oceaniani avevano e hanno tuttora interessanti tradizioni e pratiche di accoglienza e integrazione. In molte isole si parla di «primi» e «secondi» arrivati, di maitre de la terre e di capi politici di origine straniera. Per gli autoctoni kanak il problema non fu la presenza sulle loro isole di persone originarie di altri orizzonti, ma questioni molto pratiche come la sottrazione di terreni fertili, l’introduzione di bovini e cavalli che distruggevano le coltivazioni locali di tuberi, le violenze contro le donne, l’arroganza quotidiana dei «bianchi». Episodi di contro-violenza e vere rivolte hanno costellato la storia del Paese, creando cicatrici non rimarginate che i discendenti portano dentro di sé, spaccando e dividendo la società tra i caldoche (termine oggi politicamente scorretto, ma molto usato nei contesti intimi e famigliari), ovvero i discendenti dei primi coloni liberi o detenuti e gli autoctoni kanak.
Sono 1878, 1917 e poi 1984-1988 le date delle grandi rivolte anti-francesi. La lavorazione del nichel e la realizzazione delle infrastrutture portarono nel tempo sull’isola lavoratori asiatici (vietnamiti, indonesiani giavanesi, giapponesi), oceaniani ed europei (tra cui molti italiani), creando una società multiculturale in cui i kanak rimasero a lungo minoranza. La grande rivolta degli anni Ottanta del secolo scorso, che qui tutti chiamano les evenements, «gli avvenimenti» per eccellenza, terminò con gli Accordi di Matignon (1988) e di Nouméa (1998) che hanno garantito 30 anni di pace e sono stati un primo, concreto tentativo di sperimentare una «sovranità condivisa» tra la Francia da una parte e la composita società caledone dall’altra.
L’Accordo di Nouméa, formalmente ancora in vigore fino a quando (e se…) l’Accordo di Bougival diverrà operativo, prevedeva un progressivo e irreversibile trasferimento di competenze dalla Francia alla Nuova Caledonia: la politica fiscale, la possibilità di approvare «leggi del Paese», l’educazione. Solo, si fa per dire, le competenze sovrane (la moneta, le relazioni internazionali, la giustizia, la difesa) rimangono prerogativa dello Stato.
Che cosa prevede il nuovo Accordo di Bougival? Che cosa sarà questo Stato della Nuova Caledonia, ben incastonato in un altro Stato (quello francese)? L’Accordo prevede che la Nuova Caledonia «potrà essere riconosciuta dalla comunità internazionale» e trasferisce al Paese le competenze in materia di relazioni internazionali, pur nel rispetto «degli impegni internazionali e degli interessi fondamentali della Francia». È difficile immaginare che questo significhi un seggio all’Onu o la nomina di propri ambasciatori, ma il trasferimento di competenze consentirà al Paese di sedere in modo più autorevole negli organismi regionali del Pacifico e, auspicabilmente, di procedere ad accordi economici con i Paesi vicini come Australia, Nuova Zelanda, Vanuatu, Isole Salomone. I suoi cittadini godranno di una doppia nazionalità: francese e caledone e, di rimando, europea.
Dopo la modifica da parte dell’Assemblea e del Senato francese (non scontata…) del Titolo XIII della Costituzione che ratificherà ufficialmente la nascita dello Stato della Nuova Caledonia, il Congresso di quest’ultima procederà all’approvazione di una Legge Fondamentale, qualcosa di molto simile a una Costituzione. Essa potrà ridefinire quelli che vengono chiamati i «segni identitari», tema quanto mai delicato: il nome del Paese, contestato dal popolo premier che preferisce Kanaky a Nuova Caledonia; la bandiera, l’inno. Potrà accogliere una «carta dei valori» (repubblicani, kanak, oceaniani). La Legge Fondamentale dovrà altresì definire i criteri di accesso alla Nazionalità.
La Francia conserva nel frattempo le competenze sulla difesa, su sicurezza e ordine pubblico (anche se, in questo campo, verrà istituita una sorta di cabina di regia franco-caledone), sulla giustizia e sulla moneta che rimane il franco del Pacifico, ancorato a un cambio fisso con l’euro. Il futuro Congresso della Nuova Caledonia, con una maggioranza di tre quinti potrà cambiare la Legge Fondamentale e avocare a sé le competenze sovrane, fino a divenire uno Stato pienamente indipendente.
Quale corpo elettorale prenderà le decisioni più delicate per il futuro del Paese? Come è stato risolto questo snodo che ha portato, l’anno scorso, alla rivolta del 13 maggio? Bougival prevede un corpo elettorale glissant, «scorrevole». Nel febbraio del 2026 gli elettori chiamati ad approvare il nuovo Accordo saranno solo quelli già iscritti nelle liste elettorali degli ultimi 3 referendum sull’indipendenza (tenutisi nel 2018, nel 2020 e nel 2021), un corpo elettorale «congelato» dunque. Poi, se l’Accordo sarà approvato, il corpo elettorale verrà progressivamente allargato a quanti risiedono sull’isola da almeno 15 e più tardi 10 anni. Sarà il Congresso futuro a definire nel dettaglio i criteri per «misurare» la residenza.
Un buon accordo politico, ha scritto di recente lo storico caledone Louis-José Barbançon in un editoriale apparso su «Le Monde», si vede dall’insoddisfazione delle parti che lo hanno sottoscritto. A Bougival i partiti lealisti hanno dovuto rinunciare all’idea di una Nuova Caledonia pienamente (re)integrata alla Francia, dopo i tre «no» all’indipendenza espressi dai referendum che, a loro dire, mettevano fine alla questione coloniale. L’Accordo del 12 luglio 2025 si configura al contrario come la nuova tappa di un accidentato, ma possibile cammino verso l’indipendenza del Paese. Dal canto loro, i partiti indipendentisti hanno dovuto accettare una sorta di slogan che il terzo polo politico del Paese, il partito Éveil Océanien che rappresenta in gran parte la comunità polinesiana arrivata dall’arcipelago di Wallis e Futuna, ha da tempo fatto proprio: «Si all’indipendenza, ma non adesso». Non è stata una resa politica, ma in primo luogo una constatazione pragmatica: l’economia è in ginocchio, la sola industria, quella del nichel, è stata umiliata, dopo i grandi investimenti dei decenni scorsi, dalle politiche industriali cinesi ed europee, che hanno orientato gli acquisti del prezioso minerale dall’Indonesia. In 30 anni di pace e di relativa autonomia, poco è stato fatto, anche dalle due province a maggioranza kanak (il Nord e le Isole della Lealtà) nel campo della sovranità alimentare, energetica, ambientale. È chiaro che occorre cambiare passo e probabilmente le elezioni provinciali del 2026 vedranno un terremoto dell’attuale assetto politico.
Intanto però lealisti e indipendentisti sono messi al lavoro sul terreno per spiegare ai loro elettori il senso dell’Accordo e per convincerli ad approvarlo in una consultazione popolare che dovrebbe tenersi nel febbraio del 2026 e che sarà decisiva per i destini del Paese. L’impresa non sarà affatto semplice: la commissione esecutiva dell’Union Calédonienne, il principale partito indipendentista, ha già espresso molte riserve, anche se i suoi rappresentanti a Parigi hanno firmato l’Accordo.
Indipendenza, sovranità, Stato sono concetti ambivalenti, diceva Geertz, e lo sono ancora di più nell’Accordo di Bougival e nel contesto caledone. Forse però questa ambivalenza ha qualcosa di oceaniano, nella misura in cui attenua le «identità» etniche, le sfuma per così dire. Anche perché chi conosce la Nuova Caledonia sa quanto complesse e plurali siano le appartenenze e le genealogie di ogni singolo abitante. Il meticciato biologico e culturale è la regola e non l’eccezione: nell’uovo sbattuto dal colonialismo e dai fatti della storia è impossibile separare il bianco e il rosso. Dell’Accordo, ha scritto ancora Barbançon, è importante il «gesto», la stretta di mano che allontana la guerra e riporta il confronto nell’arena della politica, piena di ambiguità e campi di forza, ma libera dai proiettili e dai sacchi di sabbia. C’è un lungo cammino da fare insieme, a partire innanzitutto dal riconoscimento di piena dignità di civiltà alle lingue e alle culture autoctone e, al tempo stesso, dal riconoscimento alle «comunità di sofferenza» giunte qui nei tempi cupi del colonialismo di un pieno diritto a immaginare il proprio futuro nel Paese insieme ai kanak.