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 2025  luglio 29 Martedì calendario

«M - Il figlio del secolo» cancellata dopo la prima stagione: censura o costi eccessivi? Scurati: «Bisogna chiedersi perché»

La serie tv più acclamata dalla critica e dal pubblico (un milione di spettatori solo i primi giorni) probabilmente si ferma qui, alla prima stagione. È molto probabile che «M – Il figlio del Secolo» non abbia un seguito, nonostante l’ampio materiale che i libri di Antonio Scurati, e la storia, offrivano agli sceneggiatori per andare avanti. E nonostante il successo. E allora perché? C’è una risposta facile (e vera), una risposta più tecnica (vera anch’essa) e una più complicata, di cui prendere atto.
Cominciamo da quella più facile: censura. Non una censura esplicita, palese, urlata. Ma una più strisciante, obliqua, indecifrabile. Quella diretta magistralmente da Joe Wright – e scritta da Stefano Bises e Davide Serino – è stata come una bomba nel panorama delle serie tv. Per originalità e potenza visiva. Per le idee e la capacità di tenere insieme il passato e il presente, il fascismo e i populismi, l’aspetto istrionico e arci italiano di Mussolini, la fascinazione che ha provocato e la rappresentazione iperbolica eppure realistica dell’essenza violenta del regime. Non tutti i critici l’hanno apprezzata, ma in generale è difficile trovare una rottura così forte negli schemi della rilettura cinematografica della nostra storia e del fascismo in particolare.
Inevitabile, dunque, che non sia piaciuta alla destra italiana. Non perché questa sia ancora fascista, ma perché trova ancora indigeribile una professione così esplicita e diretta di antifascismo e perché con Scurati ha un conto aperto. Tanto che la Rai lo scorso anno si è spinta fino a censurare il suo monologo sul 25 aprile. È lo stesso scrittore che l’altro giorno, al festival di Giffoni, ha detto quel che molti pensavano e pensano. Prima ha dato sostanzialmente per scontato che non si farà la seconda stagione: «È abbastanza incredibile che una serie di questa bellezza e potenza non abbia una seconda stagione. Basta vedere l’accoglienza critica all’estero, tutti gridano al capolavoro al netto di qualsiasi polemica politica e ideologica. È molto probabile che non avrete notizie di una seconda stagione». E poi ha lasciato cadere una dichiarazione sibillina: «Bisogna chiedersi perché».
Già, perché? Marco Travaglio, che evidentemente ha in uggia lo scrittore, scrive: «Non sarà che tutta questa bellezza e potenza le ha viste solo lui?». È un’ipotesi anche questa, sia pure ultra minoritaria. Scurati invece lascia intendere che c’entri un intervento di tipo censorio. Ma di chi? E come? In effetti una seconda stagione sembrava scontata. Luca Marinelli, l’interprete di Mussolini, aveva detto: «Di certo la storia non è finita, siamo arrivati solo alla nascita di una dittatura. Questa prima stagione è stata una fatica grande, ma un’esperienza gigantesca. Poter rilavorare con tutte queste persone sarebbe una gioia e spero ci sarà la possibilità». Lo stesso Nils Hartmann, vicepresidente esecutivo di Sky Studios per l’Italia, mesi fa aveva detto: «Stiamo ragionando sulla seconda stagione, ci sono parecchie idee. Del resto sarebbe folle non dare un seguito a questa seconda parte». Ecco, appunto, sarebbe folle: eppure pare proprio che non si faccia più. Ma da dove arriverebbe questa presunta censura?
Un indizio ce l’ha dato lo stesso Joe Wright, il regista della prima stagione, che in un’intervista al Financial Times a marzo ha detto: «Nessuna piattaforma vuole trasmettere la serie negli Stati Uniti. C’è stato un produttore che mi ha detto: “Adoriamo lo show, però è un po’ troppo controverso per noi”. Scusate un attimo, quand’è che l’antifascismo è diventato controverso?».
Wright si dev’essere distratto perché in effetti è da un po’ che fascismo e antifascismo, in Italia e negli Stati Uniti trumpiani, sono diventati divisivi. In più, nella serie non mancano gli ammiccamenti contro il tycoon, come quando Mussolini-Marinelli guarda in macchina e dice: «Make Italy Great Again». L’inevitabile accostamento tra due fenomeni pure così diversi, avrebbe insomma dissuaso distributori e piattaforme americane dall’acquistare un prodotto che rischia di essere sgradito alla Casa Bianca. Se pensate che sia improbabile, che non si è arrivati fino a questo punto, suggeriamo di soffermarsi sul recente licenziamento di Stephen Colbert dal Late Show, deciso dalla Cbs, con la vistosa approvazione a posteriori di Trump (qui ne ha parlato Aldo Grasso).
E l’Italia? Ufficialmente non ci sono state prese di posizioni contrarie esplicite da ministri. Ma, oltre alla censura, esiste l’autocensura. Lo ha detto bene Scurati a Giffoni: «Censure micro che si consumano all’interno delle persone, nella loro coscienza. L’individuo inizia a censurare se stesso. Non solo ho subito forme di censura meno manifeste, ma anche più gravi, che non sono diventate pubbliche. Ora, se devo scrivere o parlare in tv, mi chiedo: ’Lo dico o non lo dico?’. E quasi sempre lo dico. Tuttavia, se ti arrivano lettere minatorie a casa, questo condiziona la mia vita». Scurati si riferiva agli scrittori, che ormai devono combattere una battaglia con loro stessi per non autocensurarsi. Ma la questione riguarda ancora più da vicino i produttori, che hanno meno scrupoli morali, e che – nel dubbio – preferiscono non sfidare troppo i potenti del momento. Anche perché sono potenti con i quali devono trattare contratti e prebende e non conviene irritarli troppo.
E poi ci sono i soldi, la seconda risposta alla domanda del perché (probabilmente) non si farà. Già, perché la prima stagione è costata molto, moltissimo: 65 milioni di euro, secondo le cifre ufficiali, per otto puntate. Possiamo fare qualche raffronto, con le serie di questi ultimi anni: Don Matteo, 18 milioni per 10 puntate; L’amica geniale4 57 milioni per 5 serate (ma c’è anche Hbo); Leopardi 12 milioni per due serate; Il Conte di Montecristo 37 milioni per 8 puntate. Soldi usati per ricostruire le scenografie, per gli effetti speciali e per pagare un cast impegnativo. Soldi che sono arrivati anche dal tax credit ministeriale: 15 milioni. La serie è stata prodotta da Sky, The Apartment Pictures (Freemantle), Small Forward Production e i francesi di Pathè.
Ma è davvero la questione economica la ragione principale della titubanza dei produttori? E qui arriviamo alla risposta più complessa. La serie è stata trasmessa in contemporanea in Italia, Regno Unito e Irlanda a partire dal 4 febbraio. Poi si è incagliata, nella ricerca di un mercato estero. Come abbiamo detto, gli Stati Uniti hanno fatto resistenza. Tanto che i produttori a gennaio avevano pensato di mollare tutto e di cambiare progetto: non proseguire nella serie, ma uscire con un film per la sala. Una svolta c’è stata solo a maggio, quando Mubi ha acquisito da Fremantle i diritti della serie per alcuni Paesi, America Latina, Belgio, Lussemburgo, Turchia, India, Nuova Zelanda. E Stati Uniti. Ma è proprio l’incertezza delle vendite sul mercato americano a rendere tuttora meno probabile il proseguimento della serie. A dimostrazione che il libero mercato e la libera circolazione dei prodotti, delle idee, delle persone sono indispensabili. E che ogni restringimento, dovuto a una minore libertà d’opinione e di pensiero o alla miopia dell’imposizione dei dazi, provoca un danno e un impoverimento.
Poi, certo, c’è da chiedersi quale sia la ragione prevalente. Se il governo sarebbe ancora disposto a versare quella cifra di tax credit. Se davvero non sia possibile ridurre i costi, se sono giudicati eccessivi. Non sempre, infatti, risultati modesti inducono a uno stop. Prendiamo Diabolik. Il primo – costato, secondo BoxOffice Benful 8,5 milioni di euro – è stato sostanzialmente un flop, incassando circa 3 milioni di euro, con critiche spesso negative. Nonostante questo, la Rai è andata avanti. Il secondo Diabolik (Ginko all’attacco) è costato 7,7 milioni di euro e ha incassato 1,2 milioni. Il terzo è costato 7 milioni di euro e ha incassato 700 mila euro. Come si vede, la questione finanziaria non è sempre e solo l’unico parametro per decidere se andare avanti in una serie o nei sequel oppure no.
Di certo, alla destra non dispiace la sparizione di «M». Anche perché è impegnata a valorizzare i suoi autori e i suoi eroi. Come il Giulio Base di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi (con il film sul giornalista fascista Almerigo Grilz) o Luca Barbareschi (è uscito il 24 luglio «Paradiso in vendita», premiato da un incasso, per ora, di 3.164 euro, secondo MyMovies). La campagna contro la «cricca» di sinistra ha raggiunto alti livelli nei giorni scorsi. L’attore Michele Morrone si è sfogato a «Belve»: «Bisogna essere un po’ sinistroidi, con le boiserie anche nel culo per essere riconosciuti come attori in Italia». Ma il vento sta cambiando, come diceva Virginia Raggi. L’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano si lamentava che non ci fossero film su Oriana Fallaci e su Luigi Pirandello. Ci sono, in realtà, ma non bastano mai. Dopo il film «Oriana», è arrivata la serie «Miss Fallaci», costosa (20 milioni di euro, con 5 di tax credit), con critiche pessime e ascolti scarsi. Se la destra ha subito la defezione di Pupi Avati, che agli ultimi David ha sparato contro il ministero, la sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni rilancia: l’anno prossimo – annuncia – «Cinecittà organizzerà al Museo del Cinema di Torino la mostra su Oriana Fallaci, una grande italiana».