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 2025  luglio 28 Lunedì calendario

De Cataldo: “Un braccio rotto mentre giocavo a pallanuoto. E scoprii il mio vero amore”

Se ho scritto Romanzo Criminale è per merito di un villaggio vacanze, di una partita di pallanuoto, di due traumi ortopedici, di un abile librario e, naturalmente, del mare e di un’estate. Quella del 1983, l’anno del film Sapore di mare, della Milano da bere, del felice riflusso, dell’edonismo reaganiano. Ero fresco vincitore del concorso in magistratura, l’autunno mi avrebbe portato un lavoro retribuito (già allora una condizione di privilegio, almeno a sentire i miei amici precari indignati). Sono dunque in un villaggio vacanze. Passano dei tizi dai più svariati accenti regionali, tutti peraltro travestiti da surfisti di Santa Monica, e ti obbligano a prendere parte a un’attività fisica purchessia: la quiete è ritenuta deleteria, in questi ambienti. L’offerta è varia e variegata, si va dallo sci nautico al trekking sul vicino monte (perché non esiste villaggio vacanze sul mare che non abbia, come fondale, un promontorio quanto mai faticoso da scalare).
Cerco di resistere con tutte le mie forze a ogni offerta, finché non scatta inesorabile la precettazione atletica: di dove sei? Di Taranto. Ah, uomo di mare. Vieni, avanza un posto nella sfida di pallanuoto. Beccato. Rassegnato, seguo il mio mentore, una specie di attore hollywoodiano con dei lunghi boccoli biondi. Al posto della tradizionale piscina, un braccetto di mare recintato a una ventina di metri dalla riva. Indosso una calottina rossa e siccome sono l’ultimo arrivato, mi mettono in porta. Passano due minuti di schermaglie, poi vedo avventarsi verso di me un atletico ragazzotto armato di pallone. Ecco, è pronto a tirare. Mi do slancio, come ho visto fare ai pallanuotisti veri in tv, e quando quello sta per far partire la sfera, mulino le braccia all’impazzata e trac… un dolore terribile mi paralizza il braccio destro. Ma come ho fatto a dimenticare, per la miseria! Il mio debole braccio destro! Non è mica la prima volta che mi tradisce! Lussazione. Finii all’ospedale di Corfù. Abbattuto da un omero malandato nel paese di Omero.
Il problema di una lussazione è che, oltre a fare male, è una gran rottura di scatole. Un mese di gesso, e poi un lungo periodo di riabilitazione. Naturalmente, niente bagni. Ci ero già passato, ed ero furibondo per il ripetersi del guaio. Tornato a Taranto, vedevo sfumare il resto dell’estate. La città era una fornace, gli amici tutti dispersi, non restava che dedicarsi alla mia attività preferita: la lettura. Ma non trovavo niente di stimolante. Avevo consumato classici, beatnik, avanguardie, poeti e divorato migliaia di pagine di autori più o meno noti. Serviva qualcosa da scoprire, un nuovo campo da esplorare. «Prova coi gialli». Il consiglio veniva dall’amico Lorenzo, libraio di fiducia. Lorenzo era un autentico incantatore di serpenti. Un grande venditore, ma poteva permetterselo perché era un profondo conoscitore dei libri. Un libraio doc, insomma. Caso curioso: Lorenzo si era lussato una vertebra cervicale, e indossava un vistoso collare di Schanz. A spasso per le vie afose del centro, sembravamo una coppia da commedia: lui col collo bloccato, impettito come un ufficialetto austroungarico, e io con la mano che sporgeva pendula dall’armatura di gesso istoriata di autografi e segni grafici di discutibile fattura. Autentica commedia all’italiana. Le battutacce si sprecavano. Gialli! La proposta mi fece trasecolare. Io detestavo i gialli. O, meglio, li consideravo robaccia, non alla mia altezza.
Mio papà era un avido lettore di gialli, e dunque Edipo doveva averci messo lo zampone, in questa diffidenza. Anni dopo, frugando fra le sue carte, avrei ritrovato vecchi Simenon, una prima edizione italiana di Edward Bunker, ritagli di giornale con recensioni dei film Rko.
Ma allora la pensavo, sul giallo, come buona parte delle accademie, dei miei amici scrittori mainstream, delle professoresse del liceo (in testa mia madre) e, ahimè, come tante e tanti fra le lettrici e i lettori che incontro a ogni presentazione: c’è la letteratura, quella seria, e poi ci sono i gialli. A tutto concedere, letture da ombrellone. Per me, confesso, neanche quello: sotto l’ombrellone preferivo portarmi Thomas Mann e Dostoevskij. Ma la noia incalzava. E allora, guidato da Lorenzo, intrapresi un percorso di conoscenza nel mondo del giallo.
Primo, indimenticabile titolo: Il diavolo in velluto di John Dickson Carr. Un romanzo storico con meccanismo ad orologeria quanto mai improbabile e incursioni nell’occulto. Un capolavoro autentico. L’iniziale scetticismo fu presto superato, la diffidenza si fece passione. Il giallo diventò la mia ossessione. Frequentavo equivoche bottegucce di rigattieri pescando, fra un porno e l’altro, vecchi “libri della Palma” e classici impolverati degli anni Cinquanta. Volevo diventare scrittore, e i gialli mi indicarono la retta via. La via della disciplina. Dovevo disciplinare il mio talento, ammesso che ne possedessi uno. Il giallo era la gabbia che cercavo. Mi ci rinchiusi volontariamente, alienai la mia presunta libertà creativa a un congegno impregnato di obblighi, consuetudini, limiti e divieti. In altri termini: regole.
Ma il dono più prezioso fu comprendere che la vera, profonda lezione della gabbia sta nel desiderio di fuga. La gabbia è una prigione, e il prigioniero anela alla fuga. Non desidera altro. Ma per poter organizzare un piano decente, deve conoscere a perfezione ogni singolo anfratto della prigione. E, sapete, capita, a volte, che dopo una fuga riuscita, torni in cella di sua spontanea volontà: perché di quelle regole non sa fare a meno. Così come non potrà mai fare a meno del desiderio di tradirle. Nulla di tutto ciò che ho realizzato dopo sarebbe stato possibile senza questa fortuita catena di circostanze. In fondo, non tutto il mare vien per nuocere.