la Repubblica, 28 luglio 2025
Tredici anni per una notifica sono la resa della giustizia
Un uomo condannato a oltre tre anni per reati gravi (rapina aggravata, resistenza a pubblico ufficiale) non sconterà nemmeno un giorno di pena che gli era stata inflitta e non pagherà nemmeno la multa di 600 mila euro che gli era stata imposta come pena accessoria. Non perché ha beneficiato di amnistia o indulto. Non per un errore giudiziario. Ma perché la sua sentenza, emessa nel 2012 e divenuta definitiva pochi mesi dopo, è stata notificata solo nel giugno 2025. Tredici anni dopo.
Quando ormai tutto è prescritto.
Accade a Prato. E purtroppo non è un caso isolato.
Dietro questa storia, documentata dagli atti della procura della Repubblica e dall’ufficio esecuzioni penali, si apre un varco inquietante in quello che dovrebbe essere il presidio più saldo dello Stato: la giustizia. Nella cancelleria del tribunale giacciono oltre diecimila sentenze in attesadell’attestazione di irrevocabilità, un passaggio burocratico essenziale che, in molti casi, blocca l’intero iter esecutivo.
Senza questa certificazione, infatti, le sentenze di condanna non possono essere trasmesse al pubblico ministero o al procuratore generale competente, i soli titolati a dare esecuzione al provvedimento. Una mole di arretrato che rischia di rallentare – se non paralizzare – l’effettiva applicazione della giustizia, trasformando decisioni definitive in atti sospesi nel limbo amministrativo. Una parte di esse, ora lo sappiamo, riguarda reati gravissimi: violenze sessuali, abusi su minori, corruzione, reati contro la pubblica amministrazione.
Tutto prescritto.
La presidente del tribunale Lucia Schiaretti che si è insediata un anno fa, ha denunciato la situazione al Consiglio superiore della magistratura. Ha scritto al ministero della Giustizia. Ha spiegato che la pianta organica èdimezzata, che le cancellerie non riescono a tenere il passo del lavoro giudiziario. Che si continua a produrre sentenze che non arriveranno mai alla fase esecutiva. Che la giustizia, così, è una finzione. Ma nulla è accaduto. Nessun intervento d’urgenza.
Nessun piano straordinario per evitare che migliaia di condanne diventino carta straccia. Solo silenzi, inerzia, distanza.
Nel frattempo, il ministro Carlo Nordio parla d’altro. La sua agenda politica è occupata da una riforma che secondo lui promette di cambiare l’architettura costituzionale della magistratura: separazione delle carriere, revisione del Csm. Una trasformazione radicale che, sempre a suo dire, restituirà ai cittadini una giustizia più equa, più efficiente, più rispettosa dei diritti. Ma basterà dividere i pubblici ministeri dai giudici per impedire che una sentenza venga notificata con tredici anni di ritardo? Basterà modificare il Csmper garantire che una violenza sessuale non cada in prescrizione per assenza di personale nelle cancellerie?
La risposta, se si ha il coraggio di guardare la realtà, è no. La giustizia italiana non è ferma per eccesso di potere, ma per carenza di strumenti. Non per il troppo attivismo dei magistrati, ma per l’inerzia delle strutture amministrative. A Prato, i magistrati hanno fatto il loro dovere: indagato, processato, condannato. Sono gli uffici di via Arenula che si sono dimenticati di chiudere il cerchio. E allora la domanda è: che idea di giustizia ha questo governo? Che valore dà a una sentenza, se poi non si preoccupa di farla eseguire? Che rispetto ha per le vittime, per i cittadini, se tollera che i condannati restino liberi per una dimenticanza? In gioco non c’è solo un caso isolato. C’è la possibilità che l’eccezione diventi regola. Che il disordine si faccia struttura. Che il cittadino perda fiducia, e con essa la speranza in uno Stato che protegge, che punisce, che ripara.
Si dice che “la giustizia è un servizio”. Ma se quel servizio si interrompe per tredici anni, e nessuno se ne accorge, forse non è più un disservizio. È un fallimento. E il ministro Nordio, tutto questo, lo sa?