La Stampa, 28 luglio 2025
Caffè, il modello per il futuro è il Brasile. Ma clima e Ai fanno schizzare i prezzi
Le bacche di caffè messe a seccare hanno il profumo del gelsomino. Il frutto rosso, come una ciliegia, ha un gusto dolce. Guaxupé, Stato del Minas Gerais, Brasile. Gli italiani che frequentano questa zona la chiamano “le Langhe del caffè” e in effetti le colline dolci somigliano molto a quelle del Cuneese. Piante di caffè al posto delle vigne, ma la cura dei filari è la stessa. Un paesaggio diverso rispetto a quello delle piantagioni montane in Colombia o dei “coffee garden” in Vietnam. Per capire da dove nasce e cosa potrà essere il futuro del chicco si deve cominciare da quest’area – indubbiamente più ricca e avanzata di altre regioni dello stato carioca – che rappresenta una parte fondamentale per le esportazioni nel mondo. Da qui partono circa 170 milioni di sacchi (ognuno contiene sessanta chili di caffè quindi in totale 10,2 milioni di tonnellate) venduti a colossi del settore come Lavazza e Starbucks da un’azienda storica che si chiama Exportadora de Café Guaxupé ed è guidata da una donna, Flávia Barbosa. «Il caffè è la nostra ricchezza, serve a misurare anche il livello di benessere dei brasiliani. In passato restavano qui solo i chicchi di scarto, quelli che all’estero non volevano perché troppo piccoli, rotti o con difetti di maturazione. Ora anche i miei concittadini vogliono bere un buon caffè e questo testimonia che la condizione economica sta migliorando» spiega Joao Hopp, direttore commerciale di Exportadora.
In Brasile la produttività è il doppio del resto del mondo e le aziende agricole in Minas Gerais hanno un’estensione media di 50 ettari mentre negli altri Paesi si ferma a meno di 5. Ma, soprattutto, il Brasile è l’unico che ha una raccolta meccanizzata diffusa: altrove è manuale. Si sta investendo molto e anche le aziende piccole, grazie all’aumento del prezzo della materia prima, possono permettersi i macchinari. Tanto da diventare un business parallelo per alcuni coltivatori: noleggiano le attrezzature ai vicini che non le hanno. «Alla fine i lavoratori guadagnano quanto guadagnerebbero con la raccolta a mano ma fanno meno fatica – racconta Flávia -. Hanno un minimo salariale di 1800 real (circa 300 euro) e poi vengono pagati in più a sacco. Lo scorso mese il salario medio è stato 5 mila real (poco meno di 800 euro) e il miglior raccoglitore ha raggiunto i 15 mila (più di 2.300 euro). Il caffè viene pre-venduto ai clienti a cui diamo l’opportunità di contrattare un prezzo stabile. Il 90% del guadagno va ai produttori e il 10% è per i costi di gestione. Non ci sono passaggi intermedi. Dobbiamo partire dalla sostenibilità economica se vogliamo investire in quella ambientale e sociale». I vantaggi li ha sperimentati sulla propria pelle anche Sueli Vilhena, 54 anni, da 25 anni raccoglitrice stagionale nei campi lontano da casa: «Adesso che abbiamo questi attrezzi possiamo guadagnare quanto gli uomini e lavorare di meno. Posso anche imparare a fare cose nuove. Vedete, grazie alle ore di formazione so presentarmi e salutare in inglese» dice orgogliosa.
L’anno scorso la siccità ha distrutto le coltivazioni, quest’anno si rischia di perdere parte del raccolto perché ci sono state troppe piogge. Un altro problema sono le temperature che abbassano la qualità del caffè. I cambiamenti climatici stanno influendo sulla disponibilità di prodotto e quindi sul prezzo, che viene deciso dalle contrattazioni in Borsa a New York. Fino agli anni ’60 la Borsa del Caffè era a Santos, il principale porto del Sud America da cui partiva oltre il 50% dei sacchi al mondo. Oggi è una città decadente ma che mantiene la centralità per le spedizioni.
Il punto di vista è diverso per chi lavora la materia prima. «Negli ultimi cinque anni abbiamo vissuto il periodo più complicato dal 1970 a oggi. Si è passati dai 2,50-3 dollari al chilo del 2020 ai 9,50 dollari di oggi. Prezzi a cui va aggiunto il premio qualitativo» racconta Emanuele Bonomi, responsabile del dipartimento acquisti di caffè di Lavazza. «Il primo choc è arrivato con l’immagine, a maggio 2021, della nave incagliata nel canale di Suez. Da allora la logistica è dovuta cambiare, anche perché quello del caffè è un lungo viaggio: ci vogliono 9 mesi dalla gemma alla tazzina». La sfida, per Bonomi, è continuare a comprare la stessa qualità di caffè anche se costa molto di più. Algoritmi e intelligenza artificiale amplificano meccanismi che da sempre sono influenzati da aspetti non del tutto verificabili come le previsioni meteo e quindi le oscillazioni sono più forti. «Una piccola notizia può creare un terremoto sul mercato e far schizzare il prezzo. Dobbiamo vedere la produzione dell’anno prossimo per capire come andrà e se la tempesta perfetta è ormai alla spalle e si sta lentamente tornando alla normalità». Ma che cos’è la normalità? «Un livello – dice Bonomi – che sia sostenibile per tutti». Come si fa se oltre il 50% del caffè arriva da un solo Paese? «Bisogna crearsi un’alternativa perché se c’è una gelata o la siccità la quantità crolla e il prezzo schizza».
Un’incognita saranno i dazi al 50% che Trump vuole imporre al Brasile: «Questa tariffa non rende sostenibile l’export negli Usa. Così si provoca un effetto a catena, per cui può aumentare il prezzo della materia prima e che – sottolinea Giuseppe Lavazza, presidente del gruppo torinese – può portare a un aumento generalizzato dei prezzi e, quindi, a una riduzione dei consumi anche in Italia». Di sicuro i produttori investono nella misura in cui guadagnano. Talis Nascimento, con il padre Louis e la moglie Suiane, guida la fazenda “Mumbuca”, 25 ettari che danno da vivere alla sua famiglia e a sette stagionali. «Quando il prezzo del caffè è più alto posso pagare di più i miei lavoratori, fare investimenti e togliere le piante non produttive per metterne di nuove. Così posso crescere. Ora ho paura che il prezzo scenda. Siamo sulle montagne russe». Cosa significa lo spiega Hopp: «Il caffè ha un ciclo di crescita: il prezzo rimane molto buono per 3-4 anni, intanto la produzione aumenta. Questo fa sì che scenda e si attesti per altrettanti anni sui livelli più bassi».
La sfida principale, però, resta il cambiamento climatico. Nell’area di Guaxupé si studiano barriere naturali: piccole foreste create artificialmente con alberi ad alto fusto che sovrastano i filari e hanno il compito di proteggerli dalle tempeste e dai parassiti. «E poi ci sono leggi molto rigide sulla deforestazione, con percentuali che cambiano da regione a regione. Il minimo, per le aree più coltivate, è avere il 20% di foreste. Ma dobbiamo spingere tutti i paesi a investire e studiare adattamenti al cambiamento climatico», sottolinea Veronica Rossi, responsabile della sostenibilità di Lavazza. Il risvolto della medaglia lo racconta Hopp: «Quando insegni ai contadini come essere sostenibili devi fare in modo che aumentino anche la produttività e diminuiscano i costi perché tutti chiedono il rispetto di molti criteri, anche ambientali, ma quasi nessuno è disposto a pagarne il costo».