Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  luglio 28 Lunedì calendario

I dubbi del Colle e la sentenza europea corsa per cambiare la legge elettorale

Se Giorgia Meloni vuole cambiare la legge elettorale – e vuole farlo, in senso completamente proporzionale – deve fare in fretta, molto in fretta. Perché, come le hanno spiegato i suoi consiglieri a Palazzo Chigi e come le stanno riportando dal Parlamento, c’è un ostacolo non indifferente sul tragitto della riforma.
Dentro Fratelli d’Italia si guarda con timore al Quirinale. Sostengono di avere la certezza che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella mostrerebbe una certa contrarietà se lo si dovesse mettere nelle condizioni di firmare la nuova legge elettorale licenziata dalle Camere negli ultimi mesi di legislatura, che avrà il suo termine intorno alla metà del 2027. Meloni vuole cancellare i collegi uninominali, per evitare che i partiti di opposizione si coalizzino contro la destra, puntando al proporzionale, con premio di maggioranza (in previsione del premierato) e indicazione del candidato premier. In realtà fu proprio l’attuale Capo dello Stato a dare il via libera al Rosatellum – legge oggi in vigore – a fine ottobre 2017, quando poi si andò al voto il 4 marzo del 2018. Ma è nel frattempo intervenuta una circostanza che teoricamente questa volta renderebbe più complicata la firma e che rappresenta il vero motivo dei timori della destra al governo. Alla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, pende un ricorso proprio contro il Rosatellum. Ed è questo l’inciampo inatteso che potrebbe far saltare tutto. Perché uno dei tre motivi del ricorso – forse il principale, sicuramente quello che può complicare le cose a Meloni – è il mancato rispetto del “principio di stabilità del diritto elettorale”, determinato dalle modifiche legislative avvenute pochi mesi prima delle ultime elezioni politiche, nel settembre del 2022. A rivolgersi alla Corte è stato Mario Staderini, già segretario dei Radicali italiani ai tempi del fondatore Marco Pannella, coadiuvato da un gruppo di liberi cittadini. La sentenza è attesa ragionevolmente entro l’autunno e potrebbe rispecchiare il parere che nel frattempo, lo scorso dicembre, è arrivato dalla Commissione Venezia, l’organismo consultivo del Consiglio d’Europa riconosciuto come la massima autorità internazionale in materia di diritto elettorale, composta da esperti indipendenti, in maggioranza giudici e professori universitari. La Commissione a cui si era rivolta la Cedu ha stabilito che «qualsiasi riforma della legislazione elettorale da applicare durante le elezioni dovrebbe avvenire con sufficiente anticipo per consentire ai candidati e agli elettori di comprendere i cambiamenti». Anche perché, sostengono gli esperti, le frequenti riforme «minano la fiducia del pubblico nel sistema elettorale» e vengono percepite come «manipolazione per guadagni politici a breve termine». Si tratta di affermazioni molto vicine alla realtà per stessa affermazione dei partiti di maggioranza. È successo in passato anche nel centrosinistra, e Meloni non nasconde la volontà di fare altrettanto: cambiare la legge per puro calcolo politico. Intende farlo per liberarsi dei collegi uninominali, che potrebbero indurre gli avversari a compattarsi. Se arriverà la sentenza della Corte europea, il principio di evitare riforme elettorali nell’anno che precede il voto diverrà un principio di diritto valido in Italia, cosa che potrebbe convincere Mattarella a non firmare la nuova legge. Anche per questo attorno a Meloni si registra grande agitazione e voglia di accelerare. L’obiettivo è di evitare l’anomalia autunnale delle elezioni del 2022 e portare l’Italia al voto nella primavera del 2027. Dunque, al massimo ci sarebbe tempo fino all’estate del 2026. Sempre che la sentenza arrivi prima. Al Pd farebbe gioco restare con il Rosatellum. Anche alla Lega converrebbe, ma Meloni ha spiegato a Matteo Salvini una cosa semplice: «Se non cambiamo la legge elettorale, perdiamo tutti».
Apportare determinate modifiche e farlo in un certo tempo diventa essenziale anche per gli altri due punti in discussione nel procedimento in sospeso alla Cedu, due presunte violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’assenza della possibilità, come avviene in Germania, per un semplice cittadino di fare ricorso diretto alla Corte Costituzionale contro la legge elettorale (oggi bisogna passare da un tribunale, e nel caso del Porcellum ci sono voluti quasi 9 anni per smontarlo alla Consulta) e i limiti sul voto disgiunto. La legge attuale non prevede la differenziazione tra parte proporzionale e parte maggioritaria. Un voto vale per entrambe. Se la Cedu dovesse rilevare una violazione al diritto alla libertà di voto, il meccanismo dell’indicazione disgiunta sarebbe un aiuto in più per i partiti di opposizione: perché attraverso una strategia di desistenza sui collegi potrebbero marciare divisi per colpire uniti (qualcuno ricorda cosa fece Rifondazione comunista con Romano Prodi nel 2006, quando in vigore c’era il Mattarellum). Nel caso del ricorso di un qualsiasi cittadino, una sentenza della Corte favorevole ai ricorrenti italiani renderebbe più facile appellarsi contro la nuova legge Meloni, a maggior ragione se dovesse passare negli ultimi mesi di legislatura. Per Staderini sarebbe un’altra soddisfazione dopo aver fatto condannare l’Italia nel 2019 dal Comitato diritti umani dell’Onu, permettendo l’adozione della firma digitale per referendum e leggi di iniziativa popolare, e dopo aver raccolto 70 mila firme in 48 ore lo scorso giugno, subito dopo il fallimento dei referendum, per una legge di iniziativa popolare che prevede l’abolizione del quorum e il cui iter inizierà alle Camere a settembre: «Negli ultimi venti anni – spiega – abbiamo eletto parlamenti con leggi poi dichiarate incostituzionali o introdotte a ridosso del voto. Non c’è da stupirsi che un italiano su due non voti più».