ilmessaggero.it, 28 luglio 2025
Raoul Bova, le kiss cam e il paradosso della privacy a cui tutti (vip e non) abbiamo rinunciato
Due vicende pruriginose si sono intrecciate in questa estate di eventi estremi. In un certo senso lo sono esse stesse, anche se per fortuna non minacciano il pianeta ma la vita privata dei protagonisti. La prima riguarda la presunta “fuitina” al concerto dei Coldplay di due manager di Astronomer, la start up di intelligenza artificiale. Se n’è parlato a lungo: il Ceo e la responsabile del personale, entrambi sposati (non tra di loro), sono stati sorpresi in effusioni dalla kiss camera dello stadio di Boston e dopo qualche giorno di voyeurismo rovente hanno rassegnato le dimissioni. La seconda vicenda ha travolto Roul Bova, l’attore 53enne i cui vocali melensi ad una giovane modella, la 23enne Martina Ceretti, sono stati divulgati su YouTube da Fabrizio Corona. Una vicenda dolorosa soprattutto per la compagna di Bova, l’attrice Rocio Munoz Morales, e decisamente opaca, tant’è che ora la procura indaga per estorsione.
Ovviamente in tempi di guerra non esiste niente di più liberatorio che un sano pettegolezzo, e ognuno è libero di stigmatizzare l’imprudenza (e l’impudenza) di Andy Byron e Cristin Cabot, o la volubilità narcisistica (e le ricadute) di Bova, magari con quella tipica ipocrisia che esige dagli altri un rigore che non si pretende da noi stessi. E poi, si sa, sono personaggi pubblici, quindi la privacy nel loro caso è un diritto molto elastico. Qui sta l’errore. Non ci siamo accorti, o forse ce ne siamo accorti ma ha prevalso l’ignavia, che alla privacy abbiamo rinunciato noi tutti, vip e non vip. Ormai esiste soltanto nei lunghi formulari che sottoscriviamo al buio, pur di accedere a un servizio o acquistare un bene.
Per il resto la nostra smania di condividere immagini, dati e informazioni, di esporre le nostre esistenze ci fa pagare un dazio di cui non avvertiamo il valore né le conseguenze, senza nemmeno la fatica di una paparazzata, la circostanza sfortunata (ammettiamolo) di una kiss cam o il detestabile ricatto di un estorsore.
Il paradosso della privacy è che nasce come risposta ad una rivoluzione tecnologica, nella seconda metà dell’Ottocento. La novità della stampa a rotativa che permetteva di aumentare sensibilmente la tiratura dei giornali e di diffondere ad un pubblico vastissimo notizie di gossip spinse due giuristi americani, Samuel Warren e Louis Brandeis, a pubblicare sull’Harvard Law Review un saggio intitolato “The Right to Privacy. The Implicit made Explicit”. L’implicito è che esiste una sfera nella vita delle persone che va protetta alla stregua della violazione del domicilio, ed è appunto quel principio che la giurisprudenza anglosassone cominciò ad applicare. L’intuizione dei due giuristi nasceva da un’esigenza piuttosto concreta: salvaguardare la vita privata della signora Warren, presa di mira dalla stampa scandalistica. Nacque così il diritto “to be let alone”, testualmente di “essere lasciati da soli” (sottinteso a farsi i fatti propri).
I due manager di Astronomer e Roul Bova avrebbero voluto essere lasciati da soli, invece sono stati costretti a condividere le loro presunte scappatelle, con o senza sensi di colpa, con il mondo intero. Viene da chiedersi perché la nuova rivoluzione tecnologica, legata ad una invasività dei mezzi di comunicazione di massa molto più forte della stampa a rotativa, anziché aggiornare le tutele della privacy le abbia sostanzialmente svuotate. La risposta è che da quando ci si siamo illusi di essere tutti quanti personaggi pubblici, senza titoli né merito, è venuto meno quel contratto sociale che sta alla base del riconoscimento di un diritto. Ed è così che la privacy è diventata un optional.