Il Messaggero, 26 luglio 2025
Intervista a Pupi Avati
Bologna, novembre 1938: «Sono nato in centro, in via San Vitale 51. Erano tutti convinti che se avessero bombardato la città, le due torri, che sono a un passo, sarebbero cadute dentro l’appartamento. In quella casa è iniziata la mia esistenza e proprio lì, proprio nella cucina in cui mia madre e mio padre mi aspettavano per cena, mi piacerebbe vedere anche la fine. Il mio corpo mi ricorda tutte le mattine che ho 86 anni. Recalcitra su tutti i fronti, è disobbediente e qualsiasi cosa gli chieda di fare non la fa. Per fortuna la testa è rimasta quella dell’adolescenza: sono ancora uno che pensa, immagina, sogna e si aspetta dalla vita quello che non ha ancora avuto. Quindi, prima di morire, pretendo che qualcuno mi risarcisca per non avermi fatto nascere bello, ricco, simpatico o estroverso. Ero uno che per farsi coraggio e dire una cosa anche solo vagamente spiritosa doveva bere sette Campari. Mi chiamavano Peppino Camparino e non era esattamente un complimento». Pupi Avati, 55 film da regista e una certa sottovalutazione del proprio senso dell’umorismo.
Da ragazzo era timido?
«Le persone timide si sentono inadeguate però stando sempre nell’angolo della festa, rispetto agli altri, hanno un grande vantaggio: sanno osservare e con il tempo affinano quel talento».
A lei quel talento a cosa serviva?
«A distinguere le ragazze carine da quelle brutte. So che oggi è politicamente scorretto parlare di estetica femminile, ma io sono ancora uno che distingue le donne belle da quelle brutte. È doppiamente deprecabile, me ne rendo conto, perché la bellezza ha a che fare con la genetica e non è un merito che derivi dallo studio o dall’applicazione. Ma noi del Bar Margherita ci comportavamo così perché consideravamo la bellezza un valore e nel giudicare le ragazze ritenevamo l’intelligenza un criterio assolutamente secondario».
Lo fanno ancora in molti, soltanto che non lo dicono.
«Io lo dico perché a 86 anni puoi dire tutto quello che vuoi e io con l’avanzare dell’età mi sono scoperto provvisto di una misteriosa, strana, inattesa arroganza. Ho smesso di soffrire dei complessi di inferiorità che ho sentito per tutta la vita. La vecchiaia mi ha donato una supponenza preoccupante. Se ne sono accorti anche i miei familiari, ma preferiscono addebitarla ai danni che produce la demenza senile».
L’inadeguatezza di cui parla ha rappresentato un aggravio?
«Tutt’altro. Il senso di inadeguatezza è un regalo straordinario. Ti libera dagli equivoci, mette a fuoco i tuoi limiti, riscrive i tuoi confini. Quando arrivato da poco a Roma mi trovai nel salotto di Laura Betti in via dei Coronari con Pasolini, Moravia, Bertolucci, Bellocchio, Siciliano e tutta l’intellighenzia romana e compresi che mi stavano seducendo in modo eccessivo se non proprio plagiando mi trovai di fronte a un bivio».
Quale bivio?
«Avevo assistito alla loro esibizione e ripetevo pappagallescamente quello che avevo ascoltato a mia moglie appropriandomi della loro visione del mondo. Lei mi guardava attonita e aveva ragione. Genuflettersi agli altri, baciare la pantofola e abdicare alla propria identità è la cosa più tremenda che possa capitare a un essere umano».
Ebbe uno scatto d’orgoglio?
«Capii che per redimermi, avrei dovuto farmi cacciare. Fino ad allora, in questi consessi in cui Betti preparava le lasagne ero stato sempre in disparte senza proferire parola. Una sera parlai e dissi che in famiglia votavamo tutti per la Dc».
Reazione dell’uditorio?
«All’improvviso si fece silenzio. Laura, per proteggermi, mi mise una mano davanti alla bocca, ma era troppo tardi. Moravia e gli altri ospiti mi guardarono con disprezzo. Da quel momento ovviamente non venni più invitato e quella solitudine improvvisa, da alieno senza partito, protezioni o complicità fu decisiva per permettermi di trovare un mio tono di voce, una mia calligrafia, una mia personalità».
Come la definirebbe?
«L’identità del provinciale che ha conosciuto la vita attraverso la quotidianità e ha provato a portarla nei suoi film».
A seguire i suoi primi passi nel jazz la si sarebbe potuto immaginare più musicista che regista.
«Mi aiutò Lucio Dalla. Malgrado avessi fatto di tutto perché non accadesse, Lucio fu cooptato nella nostra orchestra e suonando molto meglio di quanto non facessi io, mi dimostrò che non avevo abbastanza talento per poter fare quel mestiere».
Addirittura?
«Ci confrontammo e venni spazzato via. Suonare era ed è ancora il sogno della mia vita, ma a un certo punto essere onesti con sé stessi è fondamentale».
Lei lo fu.
«Da musicista fallito radunai tutti i compagni con i quali avevo trascorso gli anni più belli e dissi loro: “ragazzi, ho una notizia tremenda, lascio l’orchestra e la musica”. Nessuno disse “no, ripensaci”. Nessuno mi fermò. Mi lasciarono andare».
Sua madre Ines e suo padre Angelo non avrebbero potuto provenire da ambienti più lontani. Lui, figlio di un famoso antiquario di Bologna, lei di estrazione contadina.
«Eppure si capirono. Mio padre avrebbe amato avere un figlio completamente diverso da quello che ero. Non avevo la sua eleganza, i suoi capelli biondi e i suoi occhi azzurri. Non gli piacevo e, chissà se per masochismo, facevo di tutto per non affascinarlo. Morì giovane, papà, il 10 di agosto nello stesso giorno e nella stessa curva in cui perì Giovanni Pascoli. Noi lo aspettavamo al mare. Mio padre non tornò e in famiglia cambiò ogni cosa. Fino a quel momento tutto si muoveva attorno alla sua figura, onnipotente, quasi divina».
Sua madre faticò a riprendersi? «Era innamorata di lui in modo assoluto e in quell’incidente, oltre a suo marito, mia madre perse anche sua madre. La mattina dopo, in spiaggia, per tutti eravamo i figli dell’uomo che aveva avuto l’incidente. Delle celebrità. Io ero innamorato pazzo di Carla, la figlia del farmacista. Ci eravamo scambiati a lungo sguardi senza mai rivolgerci la parola. All’improvviso, quel giorno, Carla attraversò la sabbia rovente e mi raggiunse per baciarmi. Io ho ricevuto un bacio per la prima volta grazie alla morte di mio padre. Anni dopo, a un concerto, si presenta una signora vestita di nero, tracagnotta, con i gambaletti e la borsetta. Mi dico “sarà un’amica di mia madre”. Era Carla. Non sapevo dove scappare».Cosa racconta questa storia?
«Che il passato e i ricordi vanno lasciati dove sono. Lei era diversa, ma ero molto cambiato anche io. Uno dei misteri della vita è la circolarità del tempo. Io ho sposato una donna 60 anni fa. Lei mi ha dedicato tutta la sua vita. E anche se abbiamo avuto lacerazioni di ogni genere siamo ancora qui. Io mangio da solo e lei fa lo stesso, la comunicazione è ridotta all’essenziale eppure mi sono innamorato nuovamente di lei. Non lo so fino a che punto lei mi abbia amato, ma so quanto l’ho amata e quanto lo amo io. Perché in certi momenti, è vero, non è successo, ma adesso accade e accade completamente. Sono persino geloso. Quando la osservo rivedo esattamente la ragazza che mi rapì allora».
Come è possibile?
«Perché mi è indispensabile e nei suoi occhi ci sono io, c’è il mio percorso, c’è la mia vita. Anche se lei, che odia il cinema, sul set non veniva mai. Quando dico vado a lavorare lei ride perché dice che io ho lavorato veramente solo nei quattro anni in cui ero impiegato alla Findus».
E ha ragione?
«Totalmente. Altri lavori veri non ne ho mai fatti».
Cosa ci si perdona in 60 anni di vita in comune?
«Io devo perdonarmi dei peccati indicibili. Peccati di una gravità assoluta che non confesserò mai. Non ho mai ucciso nessuno, è vero, ma da ragazzo ho agito al solo scopo di essere eccentrico e farmi notare».
Cosa le ha insegnato il cinema?
«Che al di là della tua volontà puoi far del bene agli altri. Non esiste un momento più bello della mia vita in cui dopo aver alzato il telefono, faccio un numero e dall’altra parte c’è un attore che non lavora da tre anni. Gli dico “ho pensato a te” e sento l’altro che singhiozza. Non ha idea di quale gioia mi dia».
A Diego Abatantuono, convocato per girare “Regalo di Natale” capitò esattamente questa cosa. È vero che per il ruolo avrebbe voluto Lino Banfi?
«Si, è vero. Io e mio fratello Antonio, l’uomo che mi ha permesso di realizzare i miei sogni, andammo a pranzo con Banfi e gli proponemmo il progetto. Lui ordinò tre plateau di ostriche e li divorò. Il film era a basso budget e un po’ ci preoccupammo. Non scelsi Abatantuono per quella ragione, ma insomma quell’immagine ebbe un suo peso».
Il suo primo film, “Balsamus”, ebbe un esito infausto.
«Un gruppo di ragazzi che frequentano un bar: un fruttivendolo, un amministratore di condominio, un custode di musei e un ragioniere discutono e decidono di fare un film insieme. Eravamo nel 68, l’anno in cui era possibile immaginare tutto del mondo e di sé stessi. È evidente che ci sono cose che potevano accadere solo e soltanto in quel frangente storico, Balsamus è una di quelle. C’era persino un finanziatore chiamato Mister X che si presento con un pacco di cambiali da dieci milioni. In questa diffusa di improbabilità ricevemmo una sola lettera in risposta alle decine che avevamo spedito. Era di Ennio Flaiano. Una missiva laconica: “Non scrivetemi mai più"».
Mister X perse i suoi soldi?
«160 milioni e altri 110 che ci diede per il secondo film che vide l’esordio di Mariangela Melato. Io a Bologna diventai l’eccezione perché nessun bolognese era mai riuscito ad avere né una troupe né un budget simile. Di cinema non sapevo nulla. Avevo imparato le formulette: motore, ciak, azione e però la prima volta, tra curiosi e parenti, per l’emozione sbagliai e al posto di motore dissi ciak. Capirono tutti il bluff e io, in preda all’imbarazzo, mi sentii svenire. Franco Delli Colli, il direttore della fotografia, mi prese sottobraccio e sussurrò: “Non ti preoccupare, il film te lo facciamo noi”. Fu una benedizione perché io non ero in grado».
Come definirebbe i suoi primi due film?
«Un disastro. Scappai da Bologna e arrivai a Roma con questi due piccoli cadaveri nella valigia. I cinematografari romani mi dicevano: “devi cambià nome e cognome, Pupi Avati nun esiste più"».
Per fare il terzo film, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, impiegò 5 anni.
«Io e Antonio andammo da Paolo Villaggio che fu di una disonestà intellettuale straordinaria. Consegnammo il copione. Lo prese e ci congedò: “ci sentiamo domani”. Ci telefonò: “Lo faccio”. E noi festeggiammo, andammo al ristorante, annunciammo la notizia e lo cercammo nuovamente per i dettagli. Non lo trovammo più. Sparito. Volatilizzato. Passano 45 giorni e mia madre mi fa sapere che ha letto sul Messaggero che Villaggio è atteso a Torvaianica al torneo di tennis organizzato da Ugo Tognazzi. Vado, mi faccio faticosamente ricevere, vedo che c’è tutto il cinema italiano e in mezzo ai volti noti scorgo Villaggio. Appena se ne accorge alza gli occhi al cielo e scappa via. Lo inseguo, lo prendo per un braccio: “Paolo, ci fanno fare il film”. Non gliene può fregar di meno. È la fine di tutto, lascio il copione su un tavolino, torno piangendo, passo 15 giorni d’inferno fino a che una sera mia moglie mi dice “ha chiamato uno da Parigi, ha detto di essere Tognazzi”. A me da Bologna facevano tanti scherzi telefonici: “Sono De Laurentiis, cerco Avati” e giù pernacchie. Ero abituato. Però il fantomatico Tognazzi aveva lasciato un numero di telefono. Me lo rigiro tra le dita e quando ho ormai deciso di espormi al ludibrio, il telefono squilla davvero. Rispondo e sento la voce di Tognazzi: “L’ha scritto lei questo copione?”, “Sì, perché?”, “Pensa che potrei essere adatto a interpretare il protagonista?”. Che telefonata è questa? La telefonata che ti cambia la vita».
Sembra un film.
«Essere ottimisti o pessimisti è sbagliato: bisogna rimanere disponibili agli accadimenti».
Quando Tognazzi, vergognosamente dimenticato, non aveva più offerte, lei restituì il favore offrendogli un bellissimo ruolo in “Ultimo minuto”.
«Che il cinema italiano non l’abbia premiato per quell’interpretazione è grave e disumano. Il primo film che abbiamo fatto assieme se l’era dimenticato, ma Ultimo minuto per lui fu importante. Ugo negli ultimi anni era amareggiato, ma sapeva ancora raccontare come nessuno. Proprio come Fellini, uno dei più grandi registi del mondo, che pure, nel suo ultimo periodo di vita, era considerato una reliquia inutile».
Fellini le telefonava spesso.
«Ci volevamo bene. È strano dirlo, ma Federico parlava moltissimo di soldi. Era fissato con tutti quelli che lo avevano fregato speculando alle sue spalle. Lui con il cinema di certo non si era arricchito».
I soldi, raccontò, erano un tema che interessava anche Lucio Dalla.
«Artisticamente generosissimo, A Lucio era complicato veder pagare persino un caffè. Lo chiamavamo il ragno. Al di là del caffè però Lucio era un genio, un insieme di qualità, poetiche. Un vento magico che andava oltre lui, lo superava».
Lei con il denaro che rapporto ha avuto?
«Fallimentare. Io e Antonio siamo riusciti a perdere denaro persino con Benigni che aiutammo a produrre Berlinguer ti voglio bene con 50 milioni prestati da un ristoratore di Minerbio. Pensavamo di aver acquisito qualche credito e invece quando per Impiegati chiedemmo a lui e a Nuti di partecipare, Francesco disse subito di sì e Roberto rifiutò. Il suo no mi ferì molto».
L’ha perdonato?
«Sì, l’ho perdonato perché ho 86 anni e voglio fare pace con tutti».
Pensa mai alla morte? Girare film significa rifiutarsi di morire?
«Rifiutarsi di morire è una definizione impropria perché restare o andare non dipende da noi, ma alla morte penso tutte le sere quando parlo con chi non c’è più. Ho questa via degli angeli, una parete della mia stanza dove ci sono 150 piccoli ritratti incorniciati di legno con le persone che hanno avuto un ruolo nella mia vita. Li ricordo, ho uno scambio, dialogo».
Cos’è la vecchiaia?
«Da vecchi si torna molto bambini e molto vulnerabili. Ma anche più buoni e forse saggi. Sono sempre stato competitivo e ho visto gli altri con insofferenza perché volevo batterli. Poi magari erano loro che battevano me, ma insomma, adesso la partita è finita. Vedo gli altri nella loro fragilità e li sento molto, molto simili».
Crede in Dio?
«L’ateismo e il laicismo se lo possono permettere quelli che hanno avuto una vita meravigliosa e possono dire “finisce, chi se ne frega”. Sono stato molto felice, ma non è il mio caso perché in qualcosa ho sempre creduto».