il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2025
Intervista a Gaetano Curreri
Attenzione al palco. “Si presenta come un amico, un grande amico. Poi quando meno te lo aspetti ti dà la mazzata”.
Mai troppa confidenza.
È uno dei luoghi più sicuri.
Lo sa bene.
Almeno due volte, grazie al palco, mi sono salvato.
La prima nel 2003.
Un medico, tra il pubblico, si accorse che qualcosa non andava dal timbro di voce: avevo un ictus; pochi anni fa, l’infarto.
Lei il pubblico lo guarda?
Quasi mai, spesso canto a occhi chiusi perché ho bisogno di sentirmi nella mia stanzetta.
Anni fa ha dichiarato: “Uso un cono come microfono perché non so dove mettere le mani”.
Ancora adesso; la manager mi rimprovera: ‘Togli la mano dalla tasca’.
Non si fa.
Mi dà sicurezza, pure nella vita.
Il palco è una droga?
È un eccitante eccezionale, mette a posto tutto, pure i dolori; (pausa, sorride) in un certo senso mi ha fottuto.
Cioè?
Il giorno dell’infarto sentivo un dolorino al petto, l’ho derubricato a stanchezza o strana emozione, e proprio sul palco è scomparso tutto. E invece…
(Gaetano Curreri è tre, quattro, cinque indizi che delineano una certezza. Ha suonato e scritto con e per Vasco Rossi. Con e per Lucio Dalla. Con e per Francesco Guccini. Ha scoperto Luca Carboni, ha capito immediatamente chi era Samuele Bersani “in assoluto uno dei più bravi”. Lui, con le sue tastiere, la sua voce roca, il suo atteggiamento da anti-divo, meglio la sostanza, ha composto numerose colonne sonore della nostra memoria. E ora è in tour con “Io sono le mie canzoni”)
La droga…
(Ci pensa) In senso stretto, non mi ha mai interessato.
La sua generazione non è stata indifferente
Hanno picchiato duro e in molti se ne sono andati a causa di quella roba schifosa. Io sono stato preservato da alcune persone; quelle persone mi hanno voluto lucido.
Ha visto, partecipato, vissuto.
Vasco mi chiama “la memoria”. Ogni tanto mi telefona e domanda: ‘Cosa è successo in quell’occasione?’.
È X-Factor prima di X-Factor: è un talent scout come pochi altri.
So riconoscere la luce. E mi piace: sono un cane da tartufo.
Com’è la luce?
Tutti i talenti la possiedono. E la vedo nitidamente, a partire da Vasco.
Amici da sempre.
Quando l’ho incontrato la prima volta, e avevamo circa 18 anni, la luce era lì, davanti a me. Un po’ come i Blues Brothers, quando John Belushi entra in chiesa e viene illuminato.
James Brown come prete.
E mi faceva pure incazzare, tantissimo.
Vasco?
Provavamo dei pezzi e lui voleva andare dritto su certe scelte, io lottavo: ‘Ma no, ho studiato!”.
Lui istinto.
Io avevo alle spalle ore e ore di solfeggio, con mia madre severissima, rigorosa con il pianoforte: ‘Finché non ti viene il culo piatto, non ti alzi e niente pallacanestro’.
Senza se.
La disciplina mi ha aiutato: ho capito che non si vive di solo talento, altrimenti uno si perde. Il talento va coccolato.
Vasco e Dalla lo hanno dimostrato.
Hanno impiegato anni e album per costruire la loro grandezza; a loro aggiungo Luca Carboni.
Carboni è merito suo.
Nei primissimi anni 80 si presenta una sera in osteria, da Vito: poteva cercare Lucio, seduto a tavola, alle prese con una partita a carte, invece decise di venire da me. E già questa scelta dà la cifra della sua intelligenza: la capacità di individuare chi ti può essere maggiormente utile.
Carboni racconta che all’inizio non pensava di diventare un cantante.
Si considerava un autore; un giorno lo registrai di nascosto mentre provava un pezzo per noi, Dentro le scarpe, poi lo feci ascoltare a Dalla: ‘Cavoli, ma questo è un cantante’. E da lì è partita la sua carriera.
Guido Elmi ha dichiarato al Fatto: “Non esiste una scuola emiliana”.
E non me lo so spiegare. Forse perché Bologna è più una città che ascolta; un tempo andavi in piazza e trovavi persone alle prese con comizi inconsapevoli: uno parlava e altri intorno ad ascoltarlo.
Silenti.
Macché, dopo averlo ascoltato nascevano discussioni interminabili. Questa era la città: condivideva. E questo habitat ha aiutato il cantautorato, il confronto tra dei grandi.
Tutti all’osteria da Vito.
Lì si ritrovavano Carboni, Dalla, Guccini, Vasco e non dimentichiamo Freak Antoni, uno dei più grandi tra i grandi.
Gli Skiantos da leggenda.
Possedeva una capacità incredibile di manipolare la parola, il linguaggio, la storia.
I suoi testi sono unici.
Con lui ho scritto un pezzo, Il creativo, dove nei primi anni 90 prendevamo per il culo i pubblicitari: questi esseri diventati divini, dove con i loro slogan segnavano la vita delle persone.
Manipolatori.
Ante litteram.
Ricky Portera descrive Dalla come manipolatore.
Il suo manager sosteneva: Lucio è capace di convincerti di aver letto un libro basandosi solo sulla prima e l’ultima pagina.
Tra Guccini, Dalla e Vasco, come personalità, chi emergeva maggiormente?
Quella di Lucio era fortissima.
Più di Guccini?
Francesco è sempre stato legato al territorio, a un periodo ben delineato, a un pensiero anarchico; Lucio era più vario: passava dall’Espressionismo tedesco alla tigella. E poteva convincerti di tutto.
Vasco?
È sempre attuale, riesce a sintetizzare idee là dove sembra non ce ne siano più.
Per arrivare a certi livelli è necessaria la cattiveria?
Cattivi, no. Dritti, sì.
A prescindere dagli ostacoli.
È fondamentale difendere il proprio pensiero fino allo stremo delle forze. E anche oltre.
Lei è così?
No, ogni tanto mollo; qui c’è la differenza tra me e loro: a volte scelgo la strada meno faticosa. La pigrizia, in alcune situazioni, mi ha totalmente fottuto.
In mezzo a dei grandi è altrettanto grande?
Sono un grande nel tirare fuori le energie; (pausa) però è successo pure il contrario.
Esempio.
Quando Lucio mi ha convinto che potevo cantare.
Non lo sapeva.
Per niente. Nel momento in cui sono nati gli Stadio, ero il numero due. Il numero uno era Ricky (Portera).
Il Grande figlio di puttana.
Aveva le physique, era bello, un grandissimo chitarrista, piaceva a tutte le donne.
È leggermente noto.
Le donne impazzivano per lui; comunque fu Dalla a convincermi del ruolo.
Portera come la prese?
Sono nate incomprensioni, si sono scombinate le carte.
Dalla le avrà riconosciuto una capacità di leadership.
Il leader nasce dalla consapevolezza, io ancora oggi non sono sempre consapevole.
Il leader nasce pure dall’esempio.
Sono un ottimo scrittore di canzoni, questo sì.
Un verso che le è rimasto nel cuore.
La poesia di Roberto Roversi: Se vuoi toccare sulla fronte il tempo che passa volando / in un marzo di polvere di fuoco e come il vecchio/ di oggi sia stato il ragazzo di ieri…
È diventata Chiedi chi erano i Beatles.
Parla di Bologna, del 1977, dei carri armati in città.
Lei dov’era?
All’università, mi guardavo attorno e mi chiedevo se eravamo diventati tutti matti.
Partecipava agli scontri?
No, stavo indietro: li evitavo.
Mai stato un incendiario.
Attraverso la mia sensibilità e le mie paure, ho sempre cercato di trovare il modo di appianare i conflitti.
È la dote per stare in mezzo alle primedonne.
È vero; (resta zitto) la mia è una posizione scomoda, un tempo definita qualunquista.
Si sarà beccato del demoscristiano.
Eccome; alla fine degli anni 70, il manager di Vasco, mi diede del democristiano solo perché avevo acquistato un motorino della Piaggio.
Del figlio di papà?
Quello no, perché sono ancora figlio di una madre-pianista con un carattere tostissimo.
Un bravo da lei lo ha ricevuto?
Raramente; una volta a un concerto mi disse: ‘Non capisco come fai a suonare senza lo spartito davanti’.
Le ha dato dell’approssimativo.
E che non lo so?
Esiste un suono alla Gaetano Curreri.
L’ho capito negli ultimi tempi, anche grazie a musicisti come Guè: oggi sono entrato nella fase in cui i pezzi scritti quarant’anni fa sono ancora attuali; (cambia tono) Guè è un talento.
Ha la luce.
Percepita appena ci siamo visti; un altro con la luce è Fabri Fibra e lo dimostra la sua operazione con L’avvelenata (stupenda la versione del brano di Guccini).
L’avvelenata è un brano spartiacque.
È un testo che ha condizionato tanti, compreso Vasco. E in tanti lo invidiano; (sorride) Francesco è particolare: non guida la macchina, ma quando fui coinvolto in un terribile incidente, fu lui a diventare il mio psicologo e a togliermi i sensi di colpa. Da lì sono nati un paio di brani.
E quando scrive canzoni per gli altri?
Se sento Noemi cantare Vuoto a perdere, sono felice come pochi; il passaggio sulla cellulite è fondamentale, e lei in particolare lo ha capito quando una donna l’ha ringraziata in ascensore: ‘Mi hai liberata!’.
È sua e di Vasco anche E dimmi che non vuoi morire cantata da Patty Pravo.
Lì si è realizzato un sogno mio e di Vasco: a 18 anni andavamo a vederla nei concerti, noi sotto e lei sul palco come una divinità. Anzi, è una divinità.
Quando compone?
Pure mentre dormo: alcuni mi hanno sentito cantare.
Si ricorda tutto?
Alcune melodie le perdo, ma non voglio il taccuino sul comodino.
Di cosa non vorrà mai perdere memoria?
L’emozione vissuta con Vasco quando per la prima volta siamo entrati in sala d’incisione; poi la vittoria del 2016 a Sanremo e con Giovanni Pezzoli ci siamo guardati: ‘Guarda cosa abbiamo combinato’.
Voi Stadio per due volte ultimi al Festival.
Due volte consecutive, la prima con un testo bellissimo di Luca Carboni. La casa discografica ci voleva far mollare.
E invece.
Fu un’altra volta bravo Dalla a coinvolgerci nella tournée DallAmeriCaruso; poi la svolta ci fu con il successo della fiction I ragazzi del muretto che ci permise di entrare nelle case di milioni di persone (con Generazione di fenomeni).
Torniamo alla memoria.
Aggiungo quando la Fortitudo ha vinto il primo scudetto: ho pianto di felicità.
Quando ha pianto per la musica?
Con Vasco a Sanremo nel 2005: alla fine di Un senso, nel momento in cui ha restituito il microfono a Bonolis, ho capito che era la chiusura di un cerchio partito pure per lui con un ultimo posto al Festival.
Farà il giudice a un talent?
Me lo hanno chiesto più volte, ma non ci penso.
Perché?
Come dice Mughini: aborro.
Lei chi è?
Una persona curiosa.