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 2025  luglio 27 Domenica calendario

Intervista a Marina Rei

La memoria è un tamburo che batte sotto pelle. A volte è un suono lontano, altre un ritmo che ritorna, insistente; è il piedino di una bambina che non ha ancora imparato a camminare ma sa già istintivamente tenere il tempo. Per Marina Rei, la musica è un richiamo ancestrale, un’eredità familiare, ma anche una strada sempre nuova da esplorare. Niente amore è un album che fa i conti con la memoria, a partire da quella dell’amatissimo padre Enzo Restuccia, grandissimo batterista, morto nel 2021, un titolo che è paradosso e provocazione, il disco è pieno di amore e nella raffinatissima produzione di Riccardo Sinigallia è anche un manifesto musicale, che fonde universi differenti in un’armonia di contaminazioni jazz, soul, elettronica.
In “Domenica dicembre” ricorda suo padre: “Io non mi abituo mai”. La musica aiuta?
«Quando l’ho scritta avevo perso mio padre già da un po’. Ci ho messo tantissimo tempo per elaborare, non ho un credo religioso che mi permette di aggrapparmi a una visione rispetto alla morte, all’assenza. A un certo punto ho sentito l’esigenza di scriverne, e quando dopo il testo ho trovato una chiave musicale sono esplosa: avevo canalizzato l’assenza e il dolore».
L’effetto?
«Ti dicono che con il tempo imparerai a diventare tuo padre, a sentirlo dentro di te e quindi sentire meno quell’assenza: nella canzone dico “non perdo mai un’occasione per ricordarti”, perché è così, mi capita spesso con altri musicisti di parlarne, di ricordare. Sono occasioni per sentirlo più vicino, ma diciamolo: bellissimi tentativi, la realtà è che resta molto dura».
Figlia d’arte: che ricordi ha dell’infanzia?
«Vengo da una famiglia di musicisti, anche mamma era violista dell’Orchestra sinfonica, e pure i miei nonni, di quelli che insegnano al conservatorio, che si sono spaccati la schiena su uno strumento, che hanno sacrificato la vita per la musica. In me c’era soprattutto ammirazione anche se da piccola i tuoi genitori sono semplicemente i tuoi genitori, non hai la percezione di quello che sono a livello professionale».
Lei quando l’ha avuta?
«Nel tempo, vedendoli ai concerti, gratificati non solo dalla musica, ma da chi andava ad ascoltarli. Ho imparato la dedizione, lo studio, ho imparato che se ti applichi ottieni risultati. Capire il loro valore mi ha fatto poi anche capire quanto fosse complicato emulare il loro percorso. Ho cercato la mia strada, perché fa anche paura avere un termine di confronto così importante: io sapevo che volevo cantare».
Lo ha sempre saputo?
«Non saprei, ma fin da piccola quando andavamo a vedere un film io tornavo a casa e cercavo di trovare a orecchio la melodia della colonna sonora. E mamma raccontava che quando ero molto piccola e papà studiava io tenevo il tempo con il piede: loro erano increduli, ero ancora in carrozzina».
Suo padre ha suonato a lungo con Ennio Morricone. Ha un ricordo del Maestro?
«Ho una doppia visione. Quella da bambina, quando papà mi portava con lui negli studi di registrazione e lì vedevo il Maestro, l’orchestra gigante, il silenzio prima della musica, la luce rossa che si accende. Ma allora era più l’emozione di seguire papà nel contesto dei grandi. Poi ho avuto l’opportunità di collaborare da grande con lui, che ha arrangiato la canzone Che male c’è scritta da Riccardo Sinigallia e Valerio Mastandrea sull’omicidio di Federico Aldovrandi. In quel periodo papà stava facendo dei concerti con lui in Argentina e gli fece ascoltare la mia demo: Morricone aveva fatto bellissime dichiarazioni su di me, ma non mi aspettavo nulla. A lui però piacque talmente tanto che decise di fare un’orchestrazione: mi ritrovavo con il Maestro che mi chiamava al telefono, andavo a casa sua, provammo la canzone piano e voce, poi registrammo con l’orchestra con lui che mi dirigeva: quella fu un’esperienza completamente cosciente della bellezza, della grandezza e dell’occasione di stare con lui in uno studio».
Dall’ultimo album sono passati 5 anni, oggi i cantanti sfornano singoli a ripetizione. Si sente figlia di un’epoca migliore o peggiore?
«Sono felice di appartenere a un’altra epoca: quando ho iniziato non c’erano i social, le piattaforme digitali, si aspettava l’uscita per andare anche a leggere i testi, l’attesa era parte dell’esperienza. Ora ci sono talmente tanti stimoli, sappiamo tutto di un artista dai social. Si è persa un po’ la scoperta».
"Niente amore” è un album pieno di nuove consapevolezze: oggi cosa la ferisce di più?
«Tante cose, perché sono molto fragile: mi feriscono la superficialità, la mancanza di rispetto. Penso anche che la fragilità sia un valore, del disco ne parlo anche rispetto alle nuove generazioni, pensando anche a mio figlio».
Anche lui cresciuto a pane e musica?
«Eh, sì. Lui è del 2001, appartiene a un’altra generazione. Ma sono contenta perché sia con me che con il padre (Daniele Sinigallia, ex Tiromancino) ha ascoltato la musica che gli facevamo ascoltare noi, quel bagaglio se l’è preso».
C’è qualcosa che lui ama e che per lei è inascoltabile?
«No, mi prepara playlist pazzesche. Da ragazzino ha sempre ascoltato l’hip hop, ma di un certo tipo: parte dai Sangue Misto, oggi vira su Kendrick Lamar. L’altro giorno gli ho registrato delle ritmiche per dei suoi pezzi: c’è un bello scambio che nutre sia me che lui. Poi certo, ha 23 anni: seguirò la sua strada, la sua musica».