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 2025  luglio 27 Domenica calendario

La luce dei Bitcoin brilla nella foresta africana

Il ronzio metallico stona nella densità verde della foresta zambiana. È quasi una preghiera robotica. Incessante. Centoventi computer stipati in un container d’acciaio masticano algoritmi con la voracità di termiti digitali, mentre lo Zambesi, che vuol dire “il Grande Fiume”, scroscia a pochi metri di distanza, indifferente alla rivoluzione che si consuma tra le sue sponde. Questo mormorio stridulo è il suono dei guadagni che si materializzano dal nulla, è la sinfonia del denaro che nasce dentro un computer. Sì, c’è una fabbrica di bitcoin nella foresta africana.
Zengamina è un villaggio sperduto nel lembo nord-occidentale dello Zambia, un angolo nascosto che custodisce uno dei paradossi più eloquenti del nostro tempo: un’economia digitale che germoglia dalle viscere dell’Africa rurale, alimentata dalla stessa forza primordiale “scoperta” da David Livingstone, primo europeo a vedere le cascate Victoria. L’acqua, sempre l’acqua, che trasforma la materia liquida in energia, l’energia in corrente elettrica, l’elettricità in bitcoin partoriti da un server.
La centrale idroelettrica del villaggio sbuca come un anacronismo dal verde equatoriale. Tre milioni di euro di beneficenza delle chiese protestanti britanniche (per senso di colpa post-coloniale?) trasformati in turbine e generatori che illuminano un ospedale e quindicimila anime sparse tra capanne e sentieri polverosi.
Purtroppo, per anni l’energia eccedeva la fame energetica locale, e costava troppo per gli abitanti del villaggio. Così, metà della produzione finiva dispersa, risucchiata dal fiume in un circolo vizioso di spreco.
Poi è arrivato il container, come un’astronave di lamiera ammarata nella savana, con il suo esercito di processori ronzanti: ogni macchina genera cinque dollari al giorno, mentre il bitcoin fluttua intorno agli ottantamila. La Gridless, società keniota che ha trascinato i suoi computer per quattordici ore di sterrati e buche, funziona così: trova centrali elettriche che hanno un surplus di energia a prezzi convenienti in Africa, piazza la sua miniera di bitcoin accanto alle turbine e così facendo riesce a far abbassare le bollette per gli altri abitanti della zona. Ci guadagna la miniera digitale, certo, ma nel contempo aiuta ad “elettrificare” le zone ancora non coperte dalla rete o che non potevano permettersi i costi delle bollette. E con l’elettricità cambia tutto.
Da quando il barbiere del villaggio, Damian, si è allacciato alla rete il suo negozio è diventato un faro pulsante nella notte africana. Stringhe di lucette natalizie ammiccano tutto l’anno dalle pareti dove un televisore continua a sputare videoclip, con il rasoio elettrico che ronza tra i capelli dei giovani. Il locale oggi è diventato una calamìta di socialità per chi cerca il calore artificiale della modernità. «Prima dell’elettricità non ero nulla», confessa Damien con la semplicità disarmante di chi è stato miracolato dalla luce… elettrica.
Le sorelle Tumba e Lucy Machayi, come nel resto del mondo, tengono gli smartphone incollati alle dita, protesi organiche di due generazioni. «Prima era solo foresta», racconta Lucy. In quella frase si condensa l’epopea di un continente che salta a piè pari l’era industriale per catapultarsi nell’era digitale. Per anni niente frigoriferi, niente televisori, niente rete mobile. E di colpo: “ON”.
Normalmente si associa lo spreco energetico della moneta digitale a un disastro per l’ambiente. Dopotutto, il mining dell’industria globale di bitcoin consuma tanta energia quanto la Polonia, secondo gli esperti dell’Agenzia internazionale per l’Energia. Molta viene generata con le fonti inquinanti che stando surriscaldando il mondo. Ma qui, dove l’energia rinnovabile scorre spesso inutilizzata, l’equazione si ribalta. Gridless sembra esser riuscita a trasformare lo spreco in opportunità, la ridondanza in ricchezza.
Lo Zambia estrae da sempre risorse dalla terra. Dalle miniere di rame della Copperbelt, la Cintura del Rame, agli scavi artigianali pre-coloniali, questo Paese del centro-sud africano ha sempre vissuto grazie al sottosuolo. Ma è il cielo digitale ad esser scavato, adesso, con picconi di silicio e zappe di algoritmi. I vecchi minatori di quella che un tempo si chiamava Rhodesia del nord non avrebbero mai potuto immaginare che un giorno si sarebbe estratto valore dall’aria stessa, dai calcoli matematici che fluttuano come polvere aurifera invisibile.
Il mining dei bitcoin ora rappresenta il trenta percento delle entrate della centrale idroelettrica fondata da un figlio di missionari, Daniel Rea: è abbastanza per mantenere bassi i prezzi dell’elettricità e finanziare l’espansione della rete verso nuovi villaggi. Così, mentre l’Occidente si flagella per l’impronta inquinante del bitcoin, l’Africa lo usa per elettrificare le periferie dimenticate del mondo.
Ma niente è per sempre. Ora che si è consolidata, grazie al contratto con la miniera di bitcoin, la centrale di Zengamina si collegherà alla reta nazionale. La sua energia in eccesso, che prima non trovava sbocchi e acquirenti, raggiungerà gli utenti nel resto del Paese. Così, la società Gridless, dopo aver rianimato un’infrastruttura idroelettrica che era agonizzante, si trasferirà altrove. Il suo modello si replica già in sei siti sparsi tra Kenya, Malawi e Zambia, una costellazione di container ronzanti che seguono la geografia dell’energia inutilizzata. Nel Parco Nazionale di Virunga, in Congo, i bitcoin estratti finanziano la conservazione degli ultimi gorilla di montagna: un cortocircuito surreale tra speculazione finanziaria e protezione ambientale. In Etiopia, la Grande Diga della Rinascita vende elettricità ai minatori industriali per ripagare i debiti di costruzione. È l’Africa che monetizza i suoi gigawatt dormienti, trasformando cascate e rapide in flussi di cassa digitali.
Janet Maingi, cofondatrice di Gridless, parla di “modello energetico adattivo guidato dai consumatori” con la retorica fluida del venture capitalism africano. L’azienda raccoglie decine di milioni per costruire nuove centrali idroelettriche da zero, abbinando sin dall’inizio mining e elettrificazione rurale. È una scommessa su un continente che custodisce trecento gigawatt di potenziale idroelettrico inesplorato.
Così, mentre nei giardini della centrale di Zengamina i computer continuano a ronzare la loro litania digitale, il fiume scorre imperturbabile verso l’Oceano Indiano, gli gnomi robotici dentro al container scavano monete d’oro nell’etere, i giovani clienti del barbiere Damian guardano video su YouTube e le sorelle Machayi chattano con il mondo intero dal loro angolo di foresta. La piccola economia locale si è risvegliata: negozi che restano aperti fino a tardi, connessioni internet più stabili, una manciata di café internet. Il mezzo è il messaggio, direbbe il filosofo canadese Marshall McLuhan: una nuova rivoluzione tecnologica trasforma subito la società. Anche quella di questo contenente, l’Africa che salta le epoche e reinventa le regole, trasformando l’energia dell’acqua in ricchezza virtuale. Non più le “tre C” di Livingstone – Cristianesimo, Commercio e Civiltà – ma una nuova trinità: Connettività, Corrente e Criptovalute.
Il Grande Fiume continua a scorrere, ma ora trasporta anche bit e byte verso un futuro che nessuno aveva immaginato. E forse, nella sua indifferenza millenaria, custodisce la lezione più profonda: che il progresso vero nasce sempre dall’incontro imprevisto tra necessità e opportunità, tra il flusso antico dell’acqua e il ronzio futuristico delle macchine che traducono elettroni in sogni di un futuro digitale che è già presente.