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 2025  luglio 26 Sabato calendario

Orsini: “L’arroganza è il segreto per fare il teatro che voglio”

Zagarolo è il luogo del relax, dove restituire energie al «vecchio corpo», dice.
Benedette vacanze, allora.
«Ma no, mi manca un lavoro, un progetto al quale dedicarmi. Sono uno che macina sempre qualcosa.
Qui cammino, nuoto, gioco a tennis ma intanto ripasso i due spettacoli che riprenderò in autunno». Umberto Orsini, 91 anni radiosi, è un vero fuoriclasse: grande attore, mai troppo esibito, è, della sua generazione, il più colto e il più aperto alle sperimentazioni possibili, tanto da essere famoso e rispettato, popolare e autorevole. Il suo primo spettacolo lo ha fatto sessantotto anni fa, nel 1957, Il diario di Anna Frank.Era bello, i capelli biondi e una voce calda.
Le piace rivedersi come era?
«Mi vedo come se fosse un altro. E non mi fa nostalgia. Grazie a dio sono soddisfatto di quello sono, anche vecchio. Sono una persona comoda. Sono organizzato, autonomo, risolvo i problemi...».
Come mai non si è mai fatto una famiglia?
«Il teatro in questo è crudele. Stai solo negli alberghi, solo nelle tournée. In un’arte collettiva come il teatro, mi reputo un solitario. Con un’attrice, poi, in qualche modo ci si sarebbe aspettato di lavorare insieme, tipo Tieri-Lojodice, colleghi che ho stimato. Ma io non ho mai fatto lavorare nessuno per ragioni sentimentali. E non voglio che la vecchiaia mi costringa a fare cose che non ho fatto quando non ero vecchio».
Non ha mai fatto un figlio.
«No. E non mi sento abbandonato. Ho una compagna molto dolce e affezionata. Sono stato affamato di tante altre cose, specie nel lavoro».

Soddisfazioni e delusioni?
«In teatro avrò sbagliato uno spettacolo, ma il cinema, come i fotoromanzi, lo facevo per denaro. Anche brutti film, mentre rifiutavo la brutta televisione e infatti I fratelli Karamazov o, sempre con Sandro Bolchi, Morte di un commesso viaggiatore, sono state scelte importanti. Ero convinto che la tv la vedessero tutti, i film brutti no. Si è rivelato un calcolo sbagliato perché oggi i brutti film li ridanno in tv. Era Visconti – che mi ha molto aiutato nella carriera – a spingermi verso il cinema».
“La caduta degli dei” nel ‘69, “Ludwig” nel ’73.
«Ludwig fu complicato, lo girò che era già malato. Ebbi però il privilegio di vederlo in anteprima nella villa di Cernobbio dove Luchino, nella stalla dei cavalli,aveva ricavato una sala di proiezione. Credo avesse fiducia in me; a teatro, nelle prove, non mi correggeva mai. Una volta, conVecchi tempi di Pinter, cambiai apposta una scena. “Non mi dice niente?” gli chiesi. Mi rispose: “Andavi bene prima, vai bene adesso”. Gli ho dato del lei per tutta la vita».
Non abbiamo parlato ancora del suo trionfo allo scorso Festival di Spoleto con “Prima del temporale”.
«Uno spettacolo progettato da Massimo Popolizio e da me. Anzi, voluto soprattutto da lui: io per pudore non pensavo a raccontare la mia vita in scena. Gli sono riconoscente e lo sono anche ai teatri che hanno preso lo spettacolo “a scatola chiusa”, prima di vederlo, il Piccolo di Milano, il Teatro di Roma, lo Stabile di Torino... Altri non l’hanno voluto, ma si sono scatenati ora».
Si leva il sassolino dalla scarpa?
«No, sono un pragmatico. Sono a posto così. I miei sogni li ho realizzati da quando ho la mia compagnia. Ci metto soldi di tasca mia, sì, ma va bene».
Come sarebbe a dire?
«Sono l’unico attore che paga per fare teatro. Il teatro che amo, voglio dire. Non un leggio, il microfono e via, ma Tir per le scene, collaboratori rinomati, testi particolari. Mi gratifica che il ministero della Cultura mi abbia messo al primo posto per la qualità, ma con i finanziamenti dello Stato non potrei permettermi spettacoli da “teatro nazionale”, né col botteghino nonostante gli esauriti.
Il teatro di qualità è un lusso, e io me lo pago. Bisogna lasciare un segno. E per farlo, ci vuole un po’ di arroganza».
Che c’entra l’arroganza?
«Serve se vuoi fare un gesto forte. Tra un anno, forse due, voglio fare Le serve di Genet: Massimo Popolizio regista e nel ruolo della signora, Franco Branciaroli e io le due serve, al maschile, sì, come quando il testo fu pensato in carcere. Una proposta così è arrogante perché non si può rifiutare: dove li trovi tre primi attori insieme, Popolizio che reputo uno dei più bravi, Branciaroli, così imprevedibile che mi toglie dalla noia e con cui rifarò I ragazzi irresistibili, e io».
Lei è anche uno spettatore assiduo?
«Sì, e di bocca buona. Con la capacità uditiva diminuita, poi, sento solo i bravi che hanno voce senza gridare e senza microfono. Oggi su cosa sia le recitazione c’è molta confusione, ma ho avuto scambi reciproci belli con Pippo Delbono, Alessandro Serra, Pietro Babina, e non mi dispiacerebbe fareFinale di partita di Beckett con Luca Marinelli».
Quali sono stati i suoi assi nella manica?
«Che sono positivo, vedo il bicchiere mezzo pieno. E poi il tempismo: mi piaceva quello a cui piacevo. In amore mi ha evitato sofferenze».
È vero che il grande amore è stata Rossella Falk?
«Mi fa comodo farlo credere. È stato un amore importante diventato un’amicizia profonda. Anche con Ellen Kessler è stato così: segno che non avevo sbagliato ad amare quelle donne».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Uno che si è fatto i fatti suoi».

Non come un grande attore?
«I grandi attori per me sono quelli a cui davo del “lei”, Stoppa, Santuccio... Ogni tanto, raramente, capita che un giovane mi dia del “lei”: mi vede come io vedevo quelli di un tempo, penso, ma poi mi risuona una frase di L’uomo difficile di Hoffmansthal: quando iniziano a dirti “prego, passi prima lei”, è il segno della fine. A Milano in metro sto dritto sulla schiena perché non mi va che cedano il posto a un povero vecchio. E per ora non succede. Ma forse è solo la maleducazione di oggi».