La Lettura, 27 luglio 2025
Carrère racconta Macron: in viaggio con il presidente francese
1. Ai piedi di Hans Egede
Nuuk, capitale della Groenlandia, si presenta come un piccolo ammasso di costruzioni modulari arancioni e di palazzoni grigi posati su una spiaggia di ciottoli, ai bordi dell’oceano. Neanche un albero, ma una collina in cima alla quale si erge la statua di Hans Egede – il missionario danese che ha evangelizzato la più grande isola del mondo nel XVIII secolo e che è, per questo, minacciato di rimozione dagli anticolonialisti inuit. È ai suoi piedi che aspetto il ritorno degli elicotteri che riportano indietro dalla loro escursione sul ghiaccio il primo ministro groenlandese Jens-Frederik Nielsen, la premier danese Mette Frederiksen (la Groenlandia è un territorio autonomo della Danimarca) e il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron – designato per tutto il viaggio come «il PR». Speravo di salire anche io su uno di questi elicotteri, e ho creduto che fosse fatta quando, mentre la delegazione si divideva tra gli eletti che l’accompagnano nei cieli e gli altri, mi ha lanciato uno di quegli occhiolini complici che rivolge abitualmente, e in modo così sorprendente, alle persone che entrano nel suo campo visivo. Sono rimasto deluso: ci sono molti posti in un aereo, molti meno in un elicottero, e si tratta di un evento PR+3, ovvero il PR più altre tre persone, cosa che non è alla mia portata. In qualità di scrittore embedded nella delegazione francese al G7, comincio ad avere le mie chance a partire da PR+6 o 7 – il che non è poi così male. Dal mio posto di osservazione, vedo una piccola folla – grande su scala della Groenlandia – radunarsi sul porto intorno ai tre pulpiti raggiunti presto dai tre capi di Stato. Precisiamo il contesto. Nel flusso torrenziale di decreti, annunci, folli promesse e minacce deliranti che mirano, secondo l’espressione dell’ideologo Maga Steve Bannon, a «inondare il discorso pubblico» – ovvero fare in modo che ogni cittadino della Terra non sappia più a quale boa psichica aggrapparsi – Donald Trump nel suo discorso di investitura ha fatto sapere che «gli Stati Uniti si considerano di nuovo come un Paese che estende il suo territorio e porta la sua bandiera verso nuovi e magnifici orizzonti» (questo Paese, allo stesso tempo, vuole ritirarsi da qualsiasi impegno all’estero). Tra questi orizzonti nuovi e magnifici figurano al primo posto il Canada, che secondo Trump è destinato a diventare il 51° Stato americano, poi il canale di Panama, infine la Groenlandia. La sua annessione, sempre secondo Trump, «ha buone probabilità di compiersi senza l’uso della forza militare – ma tutte le opzioni», ha aggiunto per mettere le cose in chiaro, «sono sul tavolo». Poco tempo dopo queste dichiarazioni, al vicepresidente J.D. Vance è venuto il capriccio di ispezionare le sue future colonie groenlandesi e di assistere qui, con sua moglie Usha, a una corsa tradizionale di cani da slitta, ma gli hanno pronosticato un’accoglienza così glaciale (qualcosa come l’intera popolazione riunita per voltargli le spalle) che si è accontentato di visitare una base militare, glaciale a sua volta. In queste condizioni, i comunicatori politici definiscono «un gesto forte» da parte di Macron il fermarsi qualche ora a Nuuk sul cammino del G7 e rivolgersi a due o trecento persone venute ad ascoltarlo con questa sua voce via via vibrante e seduttrice, che gioca su silenzi sapientemente piazzati, dei quali i groenlandesi non hanno ancora avuto il tempo di stancarsi. Detestare Macron è in Francia uno sport nazionale – che personalmente io non pratico. Qui, in compenso, lo adorano. Non è detto che sapessero chi era dieci giorni fa ma oggi Nuuk fa l’effetto di un focolaio di ferventi macronisti. La sua presenza è un balsamo e l’entusiasmo al culmine quando, dopo un sonoro Qujonaq! («grazie» in groenlandese) dichiara, intanto che la Groenlandia non si vende e non si prende (applausi scroscianti, come se avesse detto Ich bin ein Groenlander), poi che in segno di indefettibile solidarietà la Francia aprirà presto un consolato a Nuuk (applausi più contenuti), infine che la sua gita in elicottero con i due primi ministri gli ha permesso di osservare da vicino gli effetti del riscaldamento climatico – al quale la Groenlandia, i cui abitanti vivono tutti sulla stretta striscia costiera di un gigantesco ghiacciaio che si scioglie a velocità allarmante, è particolarmente esposta. Nella successione di brevi discorsi dei tre capi di Stato, la gara era a chi avrebbe pronunciato più volte la parola «clima» – cinque per quanto riguarda Macron, ma non prendevo ancora la misura di quanto queste dichiarazioni, a prima vista banali, avessero di provocatorio. Alla fine dei discorsi, una giornalista ha chiesto al nostro PR fin dove si sarebbe spinta la sua solidarietà se Trump avesse invaso la Groenlandia, e lui ha risposto con una leggerissima sfumatura d’impazienza che non gli piaceva perdere tempo a speculare su questioni che, per il momento, non si pongono.
2. Sull’aereo
Quasi sette anni prima, nel settembre 2017, viaggiavo già su questo aereo con il PR, del quale scrivevo il ritratto per il «Guardian». Era l’inizio del suo primo mandato, tutto sembrava riuscirgli. Andavamo a Saint-Martin, territorio d’oltremare colpito da un ciclone, poi ad Atene, dove ha pronunciato un grande discorso sulla civiltà europea. Quei tempi, a ripensarci adesso, sembrano quasi spensierati se consideriamo che il nostro viaggio di oggi si svolge sullo sfondo della guerra in Ucraina, della distruzione sistematica di Gaza, del disastro ecologico ormai irreversibile, ai quali si aggiungono da due giorni i bombardamenti israeliani sull’Iran, che alcuni considerano il preludio alla Terza guerra mondiale – e mi domando se, tra altri sette anni, ripenseremo con nostalgia alle nostre calamità attuali, tanto il caos sembra diventato insieme irrimediabile ed esponenziale. Ho ritrovato nei miei appunti dell’epoca, e sottoposto a Macron, questa frase che mi aveva detto: «Se non ci trovassimo in un momento tragico della nostra storia, non sarei mai stato eletto. Non sono fatto per tempi tranquilli. Il mio predecessore (il gioviale François Hollande) lo era. Io sono fatto per le tempeste». «Voilà – commenta adesso sorridendo —: ci siamo». Sul piano interno, bisogna pur riconoscere che non ha fatto niente per calmare la tempesta decidendo, un anno fa, di sciogliere l’Assemblea nazionale – un elettrochoc politico che lui vedeva certamente come una cura da cavallo alla sua impopolarità, senza precedenti nella storia della Quinta Repubblica, ma che ha lasciato il Paese, se non totalmente ingovernabile, ancora più difficile da governare del solito – e, in ogni caso, non più governabile da lui. Siccome il PR è il PR, poco incline all’autocritica, resta convinto che la storia gli darà ragione. Tutt’al più ha riconosciuto, negli ultimi auguri di fine anno, che la sua decisione non era stata capita e che in questo malinteso una parte della responsabilità spettava a lui – senza dire a chi spettasse l’altra. Quali che siano le difficoltà interne, tuttavia, la politica estera resta tradizionalmente appannaggio dei presidenti francesi, e possiamo dire che, bruciato sul piano nazionale, Macron si realizza sulla scena internazionale. «Good career move» (buona mossa di carriera, ndr), avrebbe detto Gore Vidal alla notizia della morte di Truman Capote. Anzi, il disordine del mondo si rivela per Macron un eccezionale acceleratore di carriera – se consideriamo che alla testa dell’Europa c’è un posto a disposizione. È così, in ogni caso, che lui vede le cose e infatti sembra in piena forma. Immaginavo che il mio secondo ritratto a lui dedicato si sarebbe dimostrato in vivo contrasto con il primo, caduta dell’impero romano dopo il suo apogeo, tanto più che alcuni me l’avevano descritto ormai incupito, tormentato, abbandonato da tutti, un’anima in pena, le unghie rosicchiate fino al sangue, perso nei corridoi di un palazzo presidenziale dove non si decide più niente. Non ho constatato niente di così shakesperiano e l’ho trovato poco cambiato, a parte il fatto che di tutta evidenza si è messo a fare pesi e che, stretto in una T-Shirt nera – era vestito così in aereo – mostra bicipiti piuttosto impressionanti, e non si accontenta di esibirli: li palpa, con visibile soddisfazione. Per il resto, sempre cool, rapido, disponibile, gli occhi blu piantati nei vostri, la mano che trattiene la vostra e non ve la rende che a malincuore, e voglio ben credere che cioè, veramente (rimango sempre sorpreso nel sentirlo usare questa espressione da adolescente: «cioè, veramente»), è arrogante, autocentrato e non si interessa a nessuno, in superficie in ogni caso (il che, a mio avviso, non vuole dire falsamente) si mostra come sempre attento, presente al suo interlocutore, chiunque egli sia, e sempre deciso a trattarlo come un individuo speciale. È una qualità da uomo politico, lo so, darti l’impressione che solo tu conti ai suoi occhi, che se è salito su questo aereo è per gustare pienamente la gioia di esserci con te e che lui ti conosce meglio di quanto tu non conosca te stesso, ma lui spinge molto lontano questa qualità, e tutte le persone che hanno a che fare con lui possono raccontare un aneddoto che lo illustra in modo quasi soprannaturale. Ecco il mio. L’aereo presidenziale è suddiviso in quattro sezioni. Davanti, la suite del PR, alla quale solo lui ha accesso. Poi, un salone dove, attorno a un grande tavolo ovale, possono sedersi su suo invito una dozzina di persone per una sessione di lavoro, bere un bicchiere o consumare un pasto leggero – quanto a lui sembra non mangiare altro che noci pecan. Ecco poi una cabina business per il primo cerchio, PR+18, infine la parte posteriore dell’aereo, che accoglie la sicurezza, la logistica, i giornalisti. Per quanto mi riguarda, stavo nella cabina PR+18, e sono stato invitato tre volte al tavolo ovale, accanto al PR che sembrava felice di parlare di film francesi degli anni Settanta – non la Nouvelle vague, no, per niente, ma i film popolari, parte della memoria collettiva, di Henri Verneuil e di Claude Lelouch: non tutti eccellenti, ammette, i Lelouch, ma che cosa non si perdonerebbe a chi ha girato L’avventura è l’avventura, simpatico film di culto trash del quale recita i dialoghi con la stessa sicurezza con la quale declama i versi della Diana francese di Aragon – la sua lettura di questi giorni? Arriva un momento, in questo assalto di erudizione cinematografica, in cui si discute dell’adattamento del Mago del Cremlino, il romanzo di Giuliano da Empoli sull’eminenza grigia di Putin, Vladislav Surkov, del quale ho scritto la sceneggiatura con e per il cineasta Olivier Assayas. È Jude Law a impersonare Putin, tiro fuori il telefono per mostrare la foto di scena al PR. «Non male», mi dice restituendomi subito il telefono, e per un istante ho l’impressione che lo infastidisca il fatto che è Jude Law a interpretare Putin e non lui, Macron. Ma perché, chiede, sono io ad avere scritto la sceneggiatura? Perché non Giuliano? (Dice «Giuliano»). Rispondo che l’autore di un libro non si trova per forza nella posizione migliore per adattarlo, manca di distanza, io stesso non collaboro agli adattamenti dei miei libri. Solleva un sopracciglio: «Però, non è lei ad avere adattato La settimana bianca con Claude Miller?». A questo punto, vi chiedo un po’ d’attenzione. La settimana bianca, tratto da un mio romanzo, risale a quasi trent’anni fa. A mio parere è un bel film ma non ha avuto alcun successo, né di critica né di pubblico. Se si facesse un sondaggio tra dieci dei miei cari, risulterebbe che uno o due forse l’hanno visto e, a parte il mio agente che ha redatto il contratto, nessuno sarebbe in grado di dire se ho collaborato o no alla sceneggiatura. «Niente di cui meravigliarsi, mi dicono quando racconto questa storia: gli preparano delle note, tutto qui». No. Oppure, se è questa la spiegazione, è ancora meno verosimile del fatto in sé. Mettiamo anche che Macron si sia preso la briga di consultare una nota su di me, questa nota avrebbe dovuto essere lunga 15 pagine per includere questa informazione. Gli chiedo, impressionato: «Ma come fa a saperlo?». Lui: «Dormo poco e bene, mi rimane il tempo di vedere dei film».
3. Lo sherpa
Venuta dall’alpinismo himalayano, dove designa i portatori, la parola si è imposta nei summit internazionali: lo sherpa accompagna il capo di Stato e, a monte, gli prepara il terreno. Dal 2017, Emmanuel Bonne è lo sherpa di Macron e il capo della cellula diplomatica dell’Eliseo – il che fa di lui una figura meno pubblica ma molto più importante dei diversi ministri degli Affari esteri che si succedono da un governo all’altro (sono io a dirlo, lui certamente non lo direbbe per niente al mondo). Diplomatico di carriera, Bonne è un cinquantenne elegante, con una bella voce grave e che, senza derogare allo stile diretto e cameratesco in uso intorno al PR, dice di applicare nei suoi rapporti con lui il motto dei Gesuiti, Perinde ac cadaver, obbedisci «come un cadavere». Nella seconda parte del viaggio, tra Nuuk e Calgary, nel cuore delle Montagne rocciose canadesi, gli ho chiesto di spiegarmi la posta in gioco del summit ed ecco quel che mi sono appuntato. Quando Valéry Giscard d’Estaing ha creato il G7, nel 1975, i Paesi che ne facevano parte (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, Canada, Giappone) rappresentavano il 75% del Prodotto interno lordo mondiale. Oggi: 35%. Sono largamente soggetti alla concorrenza e minacciati di obsolescenza da parte dei Paesi detti un tempo emergenti e che hanno fatto molto più che emergere, i Brics innanzitutto. «Eravamo – riassume Bonne – i presidenti del consiglio di amministrazione, e ora non siamo nemmeno più gli azionisti di maggioranza». È quindi ancora più vitale, per non sparire completamente dall’orizzonte, trovare una soluzione o almeno accordarsi su una posizione che riguardi uno o l’altro dei grandi problemi del Pianeta: l’Ucraina, il Medio Oriente, l’ambiente, i dazi doganali, poco importa cosa ma qualcosa, gli elefanti nella stanza non mancano. L’obiettivo è produrre un comunicato che non ha alcun valore vincolante ma esprime semplicemente una volontà, un orientamento, degli obiettivi condivisi, non dovrebbe essere troppo difficile, eppure lo è diventato dopo Trump 2, e l’esempio più flagrante del fenomeno è tutto quel che ha a che fare con il clima. Finora, dire che il riscaldamento climatico è una minaccia fondamentale e che fare tutto il possibile per frenarlo è una priorità assoluta, era una dichiarazione di principio tanto consensuale quanto dire che si è contro la guerra, per la pace, per ridurre le diseguaglianze, e così via. Una volta detto questo, i fatti potevano seguire o meno ma proclamarlo non costava niente. È finita. Il padrone del mondo trova che il clima non sia un problema, dunque di metterlo all’ordine del giorno non se ne parla, neanche a titolo di pio desiderio. Già la parola «clima» è diventata una specie di C-word, come si parlava una volta di N-word per nigger o negro: un tabù assoluto, come la parola «inclusivo» o l’idea, provocatoria nel mondo trumpiano, che argomenti scientificamente provati possano e debbano pesare nel dibattito politico. È una barzelletta, il dibattito politico, e gli argomenti scientificamente provati anche. La scienza non è obiettiva, la scienza si sbaglia, la scienza è woke, dagli alla scienza. Consapevoli che il margine di manovra è stretto, i canadesi, che accolgono quest’anno il G7, hanno subito deciso che non verrà fuori alcun comunicato congiunto, solamente una specie di riassunto neutro, ogni parola pesata con il bilancino e per quanto possibile svuotata di qualsiasi significato. Già posti nella crudele posizione di dover accogliere come invitato d’onore qualcuno cha ha chiaramente annunciato la sua intenzione di sottometterli, i canadesi sono per di più traumatizzati dal ricordo del precedente G7 che si è svolto a casa loro, sette anni fa, e andato male per quanto possibile. Trump 1 si era innervosito e se n’era andato prima della fine rifiutando di firmare il comunicato e accusando chi faceva gli onori di casa, Justin Trudeau, di essere «debole e disonesto». Terrorizzati dall’idea che un simile incidente possa ripetersi, i canadesi si preparano a piegarsi e, in generale, per i sei membri del club degli ex padroni del mondo è diventato un obiettivo in sé evitare la rottura con il settimo, limitare i danni, concentrarsi sui temi che non disturbano troppo – il colmo dell’audacia è stato mettere tra i sei argomenti all’ordine del giorno gli incendi delle foreste, un problema certo preoccupante ma che si è un po’ sorpresi nel vedere trattato a livello di capi di Stato. Allo stesso tempo, bisogna far vedere che si esiste e, pur chinando il capo, gonfiare il petto. Capisco meglio perché il PR, a Nuuk, ha martellato con tanta insistenza sulla parola «clima». L’esercizio, riassume Bonne durante uno spuntino improvvisato al tavolo ovale (ravanelli, tramezzini al salmone e cetriolo, noci pecan a volontà), consiste nel «fare sentire la propria voce senza dare l’impressione di mancare di rispetto a Trump». Osservazione ragionevole, alla quale Macron reagisce buttando lì, con il tono più leggero del mondo, questo scoop: «L’ho chiamato, ieri mattina. Gli ho detto che andavamo in Groenlandia». «E lui?» «Ha detto: “Ottimo! Di’ loro che gli auguro ogni bene”». Anche se l’inglese non distingue tra il «tu» e il «lei», Macron nei suoi rapporti con Trump, o piuttosto nel racconto che egli fa dei suoi rapporti con Trump, ha optato per il dare del tu, e mette in campo tutta la sua abilità relazionale per imporsi come il capo dell’Europa di fronte a Trump, e anche come colui che conosce bene Trump, che è in grado di fare sul suo carattere osservazioni avvedute e inattese («Non è per niente suscettibile – dice – e fintanto che si arriva a concludere un deal non tiene per niente all’ego», insomma colui che sa come trattare la belva. Il che non è falso, e in più, anche se è ancora giovane (47 anni), in termini di longevità presidenziale Macron è il decano dei capi di Stato riuniti nel G7, e fa parte del club molto ristretto di coloro che hanno fatto due mandati – un po’ come i cineasti che hanno vinto due palme d’oro al Festival di Cannes. In uno dei suoi momenti di bonomia, lo stesso Trump, racconta Bonne, gli avrebbe detto dandogli una pacca sulla spalla: «Vedrai, io e te, ne faremo un terzo». (La Costituzione francese, come la Costituzione russa, vieta tre mandati presidenziali di fila ma si può puntare a un terzo a condizione di avere saltato un turno: è quel che ha fatto Putin lasciando i comandi per cinque anni a un Medvedev sotto stretta sorveglianza, e Macron potrebbe teoricamente fare la stessa cosa ripresentandosi nel 2032. In compenso, non è previsto dalla Costituzione americana, ma Trump ha già avvisato che per così poco non si potrà privare il mondo delle sue illuminazioni, che una Costituzione non è scolpita nel marmo e che alcuni giuristi patrioti sono già al lavoro per trovare una soluzione).
4. Il Ratto
Quando le sue figliastre erano piccole, il romanziere di fantascienza Philip K. Dick inventò per loro una variante del Monopoli, con l’obiettivo di rendere meno noiosi gli eterni acquisti di immobili di cui andavano pazze. Il Banco, in questa variante, si chiama il Ratto e, invece di accontentarsi del ruolo di arbitro, detiene il potere discrezionale di modificare le regole del gioco. Quando vuole, come vuole, senza che nessuno abbia il diritto di chiedergli conto di questi ukaze, e senza che lo impegnino a nulla per il seguito. È la tabula rasa perpetua, la dittatura allo stato puro, la negazione dell’idea di diritto. Perché una partita sia riuscita, i giocatori hanno interesse a scegliere come Ratto il più vizioso e il più inventivo tra loro. Un Ratto degno di questo nome deve saper dosare i tormenti che infligge ai giocatori, lasciare loro supporre che un piano guidi le sue decisioni arbitrarie e, passando per crudeli delusioni e incoraggiamenti ingannevoli, strapparli alla loro pratica abituale del Monopoli, senza che l’interesse diminuisca, per farli sprofondare nel caos. Quando mi sono svegliato nella mia camera del Lodge Canmore, a Kananaskis – un minuscolo borgo dell’Alberta, amato dagli escursionisti e la cui atmosfera semplice ricorda un po’ Twin Peaks – erano le 4 del mattino ed ero distrutto dal fuso orario. Macron, che era andato a dormire più tardi di tutta la delegazione perché appena sceso dall’aereo aveva cenato con il primo ministro canadese, stava invece già facendo jogging ai piedi delle montagne. Alle 8 del mattino, dopo avere superato diversi check-point su una strada di montagna, in un paesaggio sontuoso, noi, i membri PR+6 e più della delegazione, abbiamo raggiunto il grande albergo totalmente isolato – che ricorda l’Overlook di Shining – dove si svolge il summit propriamente detto, e ho capito che ero venuto fin qui per assistere a una spettacolare partita di Ratto. Abito scuro e cravatta per gli uomini (in larghissima maggioranza), tailleur severo per le donne, siamo all’incirca 1.500 a percorrere senza sosta, da un salone dell’hotel all’altro, i corridoi rivestiti di una moquette anche lei presa dall’hotel Overlook – battuta di un fotografo che mi sono fatto amico: «Immagina, le porte dell’ascensore si aprono e tu vedi uscire due Trump, gemelli». Si corre molto, si attende anche molto, per un pesce piccolo come me il gioco consiste nel dribblare i diversi agenti della sicurezza e oltrepassare porte che, teoricamente, mi sono chiuse. È così che aggrappato letteralmente a Emmanuel Bonne ho avuto accesso al grande salone (PR+5) dove i sei capi di Stato normali attendevano che il settimo discendesse dal suo Olimpo. A dire il vero, i sei non erano che cinque: mancava anche Merz, il cancelliere tedesco. Non si poteva cominciare senza di lui, ancora meno senza Trump, allora si chiacchierava, con le cortesie di rito che diventavano una conversazione di circostanza sempre più sconclusionata. Carney, il primo ministro canadese, aveva l’aria ansiosa dell’ospite che ripete con un po’ troppa insistenza che va tutto bene, tutto benissimo. Senza fare troppi sforzi per fingere interesse, Ishiba, il giapponese, ascoltava Meloni, la presidente del Consiglio italiana, parlargli della passione di sua figlia per i manga. Mi sono chiesto se, con il premier australiano o spagnolo, avrebbe parlato della passione di sua figlia per il surf o la corrida. Non ne sono sicuro. So che Meloni è considerata di estrema destra e che non bisogna parlarne bene, diciamo solo che questa piccola donna bionda si distingueva al G7 per una sorta di franchezza spigliata e un dress code che non faceva concessioni alla grisaglia. In mezzo a tailleur austeri, il suo vestito blu cielo, leggerissimo, ricordava quasi un abito da mare. Mentre i minuti scorrevano, sempre più lentamente, ci si domandava dove diavolo fosse finito Merz. Era stato preso da un panico improvviso? Se l’era data a gambe? Il ritardo è durato una buona mezz’ora – molto per un evento la cui durata prevista è di 36 ore esatte. Alla fine i due assenti sono riapparsi. Merz longilineo e grigio, impacciato in un body language tale che non si sapeva bene se fosse il prescelto o l’ostaggio, Trump esattamente conforme alla sua immagine – abito blu notte, cravatta rossa, volto arancione, corpo massiccio e rigido, praticamente mai un sorriso. Due capi di Stato che cominciano a discutere in tête-à-tête prima dell’apertura ufficiale del summit, mi ha detto Bonne in un orecchio, è totalmente contrario all’etichetta, una scortesia evidente e deliberata, certamente non appartenente ai modi del povero Merz, un democratico-cristiano all’antica, esile e fragile baluardo contro un’estrema destra tedesca già ufficialmente adottata dal vice-presidente Vance. Trump si era servito di lui per fare passare il messaggio abituale: faccio quel che mi pare. Vi risparmio le formule di saluto, i discorsi di benvenuto, il photo call, ben presto è cominciata la prima discussione plenaria alla quale hanno diritto di assistere solo gli sherpa (PR+1) – ma io avevo accesso alla sala di ritrasmissione, da dove si vede e si sente tutto come se si fosse seduti al tavolo. Trump, per cominciare, ha detto che tutti quei discorsi non avevano alcun senso in assenza di Putin – escluso dal club da quell’incapace di Obama dopo l’annessione della Crimea, nel 2014 – e lo ha ripetuto, sempre più scontroso, ogni volta che qualcuno prendeva il coraggio di dirgli qualcosa. Macron si è comportato, contro ogni evidenza, come se fossimo partiti benissimo e ha valorosamente insistito per un accordo commerciale e doganale vantaggioso per tutti. Per spalleggiarlo, Meloni ha tirato fuori dalla borsa due mappe del mondo che ha mostrato a Trump dicendo: «Guarda, Donald (il tu è incerto ma l’ha chiamato Donald), guarda: tutto questo, in blu, siamo noi vent’anni fa, quando eravamo ancora i padroni. E questo, in rosso, è il commercio oggi, cioè innanzitutto la Cina. Allora sarebbe meglio trovare un accordo tra di noi, i blu, rispetto ai rossi, perché la questione adesso non è tanto chi lasciamo entrare, ma evitare di farci buttare fuori». Conclusa la tirata, ha vigorosamente annuito, approvandosi da sola, e siccome la trovavo sempre più simpatica mi sono posto quest’altra domanda imbarazzante: se io non fossi francese, se la vedessi da lontano, troverei simpatica anche Marine Le Pen? Una cosa che si può dire di Meloni, in ogni caso, è che è la persona meno poker face, meno impenetrabile, che ci sia: quando qualcosa la diverte scoppia a ridere, quando qualcosa la annoia alza gli occhi al cielo e sospira rumorosamente. Passata un’ora e mezza, come previsto, non si è arrivati a niente. Trump ci ha concesso una battuta di spirito dicendo a Starmer, l’inglese: «Dite di essere una democrazia, ma non è vero: avete un re». Starmer ha riso, un po’ servilmente, sollevato come qualcuno sul quale il fulmine è caduto e in teoria non cadrà di nuovo. Si sbagliava: qualche ora più tardi camminava davanti all’hotel dalla parte di Trump, questi ha lasciato cadere da una cartelletta alcuni fogli che si sono sparpagliati a terra e, visto che il presidente americano non ci pensava proprio a raccoglierli, è stato Starmer, dopo un istante di esitazione, ad abbassarsi e letteralmente inginocchiarsi ai piedi del padrone – immagine devastante che ha evidentemente fatto il giro del mondo. Dopo, in piccoli salotti discreti, c’è stato qualche bilaterale, si chiamano così le discussioni tra due capi di Stato. Ho assistito a quelle tra Macron e Starmer, poi ancora tra Macron e Carney, il canadese: non me ne ricordo granché. A fine pomeriggio, Macron ha tenuto, fuori, una piccola conferenza stampa improvvisata nel corso della quale gli è stato chiesto se approvasse i bombardamenti israeliani sull’Iran e la prospettiva di un cambiamento di regime a Teheran. Ha risposto che, per quanto detestabile fosse il regime, le rivoluzioni imposte dall’esterno danno raramente buoni risultati, guardate l’Iraq, o la Libia. E che cosa dobbiamo pensare, ha proseguito il giornalista, della partenza precipitosa di Trump? La maggioranza di noi che assistevamo allo scambio non era al corrente di questa partenza precipitosa, l’annuncio ci ha lasciato allibiti. Lo stesso Macron è sembrato, per un istante, spiazzato. «Penso – ha detto – che sia andato a negoziare un cessate il fuoco tra Iran e Israele». Se ha detto così, a mio avviso, era per proteggere con garbo Trump dal rimprovero di essere capriccioso e maleducato, ma il fulmine non si è fatto attendere: arrivato qualche ora più tardi a Washington, Trump ha detto che non stava affatto negoziando un cessate il fuoco, ma «qualcosa di molto più grande» (il che era vero, perché dopo tre giorni di esitazione l’America si è lanciata nella guerra al fianco di Israele), e che Emmanuel era un bravo ragazzo, un «nice guy», ma come al solito a caccia di pubblicità e non capiva niente di niente. L’interessato ha commentato, a sua volta, alzando le spalle senza rancore: non era la prima e non sarebbe stata l’ultima uscita di questo genere, uno scherzo tra amici che bisticciano un po’ per gioco ma in fondo si vogliono bene (come ha detto Reagan quando gli venne annunciato, nel 1981, che Israele aveva appena bombardato un reattore nucleare iracheno: «Boys will always be boys»).
5. La Civetta sulla T-shirt
Partito il Ratto, la tensione si abbassa. Si respira ma è innegabile che la partita perde interesse. I canadesi, che temevano più di ogni altra cosa quel che è successo, sembrano in fondo sollevati che sia successo. Benché la seconda giornata sia in fondo solo una mezza giornata, si trascina, il che è ancor più crudele visto che la sua vedette è Zelensky. Invitato del G7, ha fatto 5 mila chilometri solo per vedere Trump, supplicare una volta ancora Trump di non abbandonare completamente l’Ucraina, e Trump una volta ancora lo umilia partendo appena prima del suo arrivo. Cioè, è quel che deve dirsi, che lo umilia, quanto a me faccio parte di quelli che pensano che una scena atroce come quella del febbraio scorso nello Studio ovale non fa che sminuire Trump ed elevare Zelensky. Penso anche che, malgrado la differenza di dimensioni, il coraggio e la forza, anche fisiche, stanno dal lato di Zelensky e che in un mondo ancora normale la sua reazione normale sarebbe, semplicemente, prendere Trump per i risvolti della sua giacca blu notte e spaccargli la faccia con una bella testata. Ma noi viviamo sotto il dominio incontrastato del più perfido dei Ratti, Zelensky si batte per il suo Paese in guerra e l’eroismo nel suo caso consiste nel mandare giù rospo dopo rospo e ringraziare quando lo si insulta. Riuniti attorno a lui per l’ultima sessione plenaria, gli altri membri del G7 approfittano del fatto che Trump guarda altrove per essere tutti, nei riguardi di Zelensky, solo sollecitudine e comprensione. Quando Merz dice che l’approccio militare è in un impasse, che quel che ci vuole adesso è affinare le sanzioni, Zelensky risponde che sì, certo, è per le sanzioni ma aspettando che facciano effetto deve resistere, lui, sul campo, che ha dunque bisogno di armi («I need ammo», sempre) e tutti scuotono la testa: ti capiamo Volodymyr, siamo con te Volodymyr, e certo che è la Russia l’aggressore – una dichiarazione di questi tempi provocatoria quanto l’insistenza sulla catastrofe climatica: da non credere. Con la sua esuberanza abituale, Meloni riassume il sentimento generale esclamando: «Non fatevi illusioni, amici. Non è il 20% del Paese di Volodymyr che (Putin) vuole mangiarsi, è il 100% e non si fermerà. Vuole restaurare il suo Impero. Come se tu (posa la mano sul braccio di Macron) volessi che la metà del mondo fosse tua perché prima erano colonie francesi, o tu (accenno con il mento verso Starmer, ancora scosso dall’incidente della vigilia) il Commonwealth. E io, guarda, già che ci siamo, e se ricostituissi l’impero romano?». Macron sorride con indulgenza. Il mio amico fotografo, quella mattina: «Per lui è una gran figata che Trump se ne sia andato. Adesso è lui il capo». E in effetti, le braccia incrociate, il busto buttato all’indietro come per prendere di più le distanze, il nostro PR indossa con grande piacere il ruolo dell’adult in the room. Nell’aereo del ritorno, qualche ora più tardi, ha di nuovo rinunciato all’abito per mettersi la sua T-shirt nera, che mi accorgo essere ornata di una piccola civetta, e questo mi ricorda all’improvviso il discorso che aveva tenuto sette anni fa, un’eternità, ad Atene, sulla civiltà europea. Aveva citato una frase di Hegel sulla «civetta di Minerva, che prende il volo sul far della sera» – ovvero, la saggezza che per dispiegarsi deve attendere che la storia abbia finito di scriversi. È contento che lo abbia notato: certo che non si trova per caso sulla sua T-shirt, la piccola civetta. Certo che – per riprendere il suo mantra, tanto sbeffeggiato – vuole «allo stesso tempo» scrivere la storia e comprenderla. Ho annotato al volo, tanto al volo che faccio un po’ fatica a rileggermi, qualcuna delle cose che mi ha detto nel corso dell’ultima cena al tavolo ovale, sull’aereo. C’era troppo rumore per registrare, si parlava forte, si rideva forte, tutti (PR+20, direi) erano un po’ euforici per l’adrenalina, la fatica e perché non era andata poi così male – anche se, «cioè, veramente», a casa non portavamo niente: non una dichiarazione comune, non l’ombra di una road map per alcunché. Ha parlato di bolle cognitive («Certo che Trump vive in una bolla cognitiva, ma anche io, anche voi, bisogna almeno esserne un po’ coscienti»), del vantaggio e del pericolo di pensare da «bastian contrario» – ovvero pensare il contrario di quel che si pensa («Mi sono iscritto, come uno scemo, sull’account di Milei e mi accorgo quando leggo i suoi post che sono capace di essere d’accordo con lui»), dei due pesi e due misure, della sua ossessione («Se continuiamo così, tra l’Ucraina e Gaza, finiremo per perdere la credibilità che ci resta»). Ma quel che mi ha colpito di più, è quel che con una veemenza improvvisa ha detto dell’adolescenza – non so più come ci siamo arrivati: «Non sono mai stato adolescente. Non mi piacciono gli adolescenti. Non li capisco (è raro che Macron dica di non capire qualcosa). Mia moglie, lei sì, li capisce». Ho pensato, tra me e me: era adolescente quando si sono incontrati, e forse se lei non avesse capito gli adolescenti lui oggi non sarebbe nel suo aereo di PR, con la sua piccola civetta di Minerva sulla T-shirt nera da culturista. E poi, l’ultima parola, prima di andare a dormire – anche lui —, due o tre ore. Sembra che sia una frase di sua nonna, chi gli sta attorno la conosce a memoria e la aspetta con un insieme di divertimento e inquietudine, perché sotto la sua gentilezza cova una minaccia: «Forza, tutti a letto. Passate la notte che vi meritate».