Corriere della Sera, 27 luglio 2025
Intervista a Giulio Base
Ormai alle critiche è abituato.
«Eppure sono tanto un bravo ragazzo», ironizza Giulio Base. Due lauree (Teologia e Lettere), regista, attore per il cinema e la tv, direttore del Torino Film Fest (quella che partirà il 21 novembre sarà la sua seconda edizione). Nato 60 anni fa nella città della Mole Antonelliana, da 24 è sposato con la produttrice ed event manager Tiziana Rocca, hanno tre figli. Il suo nuovo film, Il vangelo di Giuda andrà al Festival di Locarno. «Nasce dal sentirmi sbagliato, se non un Giuda – sottolinea —. Mi sono sempre chiesto: se tutto è già scritto non mi potevate rendere migliore? Sono anni che mi interrogo su Giuda, innamoratissimo di Gesù, l’ha seguito fino all’ultimo: si è impiccato lo stesso giorno di Cristo. Le racconto un fatto personale».
Quale?
«Mia mamma ha avuto un male che la stava portando via. Soffriva tantissimo. Un giorno, nel suo letto d’ospedale, mi chiese di pregare con lei perché morisse. All’inizio mi sono ribellato, poi ho visto una tale convinzione nei suoi occhi che ho pregato con lei. Mi metto nei panni di Giuda che in qualche modo si è sentito obbligato a fare uccidere la persona che amava, un compito duro, mentre tutti lo accusiamo di essere la fogna dell’umanità».
Si è preso più di una libertà raccontando la vita di Giuda. Sa che polemiche?
«Ho letto e studiato molto. Ho cercato di fare teologia moderna, di rinnovare il racconto evangelico, con qualche libertà. Ma sapevo che era un copione bollente e l’ho fatto leggere a illustri uomini di chiesa».
Dopo il militante di destra e fotoreporter Almerigo Grilz di «Albatross», un altro personaggio controverso.
«Vero: provo stimoli e adrenalina nei contrasti. Almerigo è un reietto. Ha sbagliato? Sì, ma è morto sul campo facendo il suo mestiere ed è stato completamente rimosso a differenza di altri giustamente ricordati suoi colleghi».
Un po’ se le cerca.
«Dovrei censurarmi?»
L’accusano di essere un regista caro alla destra. È stato paragonato a Leni Riefenstahl che con i suoi documentari esaltò il nazismo.
«Ci ho riso: sono 42 anni che faccio questo mestiere, non sono i governi che definiscono nel mio lavoro. Le ho viste sotto tutti i colori, sotto tutte le bandiere. Le persone che stimo dicono che sono un cane sciolto. Ho sempre lavorato senza mai essere raccomandato».
Cosa la infastidisce?
«Quando il bersaglio divento io. Non sono un impresentabile. Non sarò bravo come Garrone, Sorrentino, Moretti, i fratelli D’Innocenzo... Però culturalmente non sono secondo a nessuno: ho due lauree, leggo e studio, se non vedo film scrivo, se non scrivo penso».
Si sente emarginato?
«È una parola che fatico a dire, perché ci leggo il vittimismo, che non mi appartiene».
Hanno detto che si è raddoppiato lo stipendio al Torino Film Festival.
«Sono polemiche sciocche, non rispondo».
E che Angelina Jolie e Sharon Stone sono arrivate a Torino soltanto perché pagate.
«Una stupidaggine. Hanno presentato i loro film. Gratis».
Sono divine?
«Sì, ma non hanno fatto nessuna richiesta eccessiva. Sharon è fenomenale. Di Angelina ho un ricordo pop».
Racconti.
Le polemiche
Le accuse di essere caro alla destra? Ma sono 42 anni che faccio questo mestiere! Angelina Jolie e Sharon Stone al Torino Film Festival ci sono venute gratis
«Una folla micidiale l’aspettava, i fotografi urlavano, ma una giovane in lacrime gridava più forte di tutti e mi mostra il braccio con sopra tatuata Jolie. Mi ha fatto tenerezza. Arriva Angelina, sorridente, la porto da questa ragazza e quando si vede a figura intera sul corpo di un’altra persona rimane a bocca aperta. Alla fine si sono abbracciate».
Stakanovista.
«Dormo poco, mangio una sola volta, all’alba, ho più tempo a disposizione rispetto agli altri. E amo il mio lavoro».
Deve ringraziare suo padre che le ha trasmesso passione per il cinema.
«Vengo da famiglia molto semplice: papà e mamma emigrati dal sud, nemmeno la licenza elementare. Sono orgoglioso delle mie radici. Papà era il primo di cinque fratelli, quando morì mio nonno aveva nove anni. Durante la guerra si è trovato a fare l’uomo di casa, ha smesso di studiare e ha cominciato a lavorare in un cinema a Napoli. Vendeva popcorn, Coca Cola e caramelle. C’erano più proiezioni al giorno: le pomeridiane per le signore, la sera per i soldati. E papà si fece una cultura incredibile».
A Torino la portava mai al cinema?
«A me e mio fratello ci faceva vedere anche i film più difficili: Truffaut, Godard, Coppola, Bellocchio».
Ha debuttato in teatro diretto da Vittorio Gassman.
«Il mio primogenito si chiama Vittorio, un omaggio al maestro. Avevo il mito di Gassman. Ero ragazzino quando venne a Torino per l’Otello. Ho assistito a tutte le 12 repliche. La sua sarta, la mitica Carmen, era un’enorme signora padovana che lo proteggeva. Ma io le stavo simpatico e mi faceva entrare: ho visto spesso Vittorio cambiarsi e asciugarsi il sudore dopo lo spettacolo. Lui tra il burbero e lo scherzoso diceva: “Ancora ’sto ragazzino, portatelo via”. Mi autografò Un grande avvenire dietro le spalle. Scrisse: a un possibile allievo».
Fu ammesso alla sua Bottega teatrale a Firenze.
«Sono stato fan, allievo, un amico negli anni della sua maturità e anche in quelli difficili della depressione, sono anche stato l’ultimo regista che l’ha diretto».
Non era una persona facile.
«Ti poteva denudare con le parole, facendoti piangere. È successo anche a me, ma lo ringrazio, come si ringrazia un papà che ti molla uno sganassone al momento giusto. Però era anche ironico, simpatico, generoso, bello come un eroe greco, un uomo di una cultura inenarrabile che nutriva in continuazione, sapeva perfettamente almeno quattro lingue e mi pare di non aver mai più sentito parlare un italiano così bello. Inarrivabile».
Un suo insegnamento?
«Diceva: il coraggio è la più alta qualità dell’uomo. Pensavo: Vitto’ sei sicuro? Ora mi accorgo che è una profonda verità: ci vuole coraggio per battere la paura».
Ha iniziato subito a fare il regista.
«Finita la scuola di recitazione con altri quattro-cinque squinternati come me mettemmo in scena Crack. Pagammo 500 mila lire l’affitto dell’Argot, una cantina a Roma molto frequentata allora: ci passarono pure Rubini e Buy. Nel mio gruppo ero quello un po’ più esperto, i miei compagni mi affidarono lo spettacolo».
Come andò?
«Alla prima era pieno, tutti amici. La seconda sera tre persone, la quarta una. Venne pure Nico Garrone, critico di Repubblica e papà del regista Matteo. Scrisse un pezzo entusiasmante e da allora tutta Roma voleva venire in questo teatro di 50 posti. Arrivarono Moretti, Lucisano, Bonivento. Nanni ottenne la prima opzione per un film, ma non stava bene e la cedette a Bonivento. Gli dicevo: “Claudio, chi è il regista, Marco Risi, Ricky Tognazzi?” Lui: “Lo fai tu”».
Ricorda «Vabbeh auguri!»?
«Caro diario, Nanni Moretti regista, io una parte piccolissima. Non gli stava bene niente, al 35 esimo ciak mi uscì quell’augurio un po’ esagerato, la troupe rise. Nanni mi guardò severo. Dopo qualche mese nel trailer del film c’era proprio quella scena lì. Aveva trovato l’essenza. Nanni è un altro grande maestro a cui voglio un bene enorme».
Con Tiziana Rocca siete sposati da 24 anni. Cosa la colpì?
«Era ed è bellissima, il mio ideale di donna: alta, magra, elegante. La prima volta che ci siamo incontrati abbiamo parlato fino alle 4 del mattino. È stato travolgente, un grande salto nel vuoto: ad agosto ci siamo messi insieme, a settembre era incinta e a dicembre ci siamo sposati. Devo ringraziarla: aveva visto prima di me che eravamo fatti l’uno per l’altra. Aveva ragione».