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 2025  luglio 27 Domenica calendario

Intervista a Johnson Righeira

«Diciamo la verità: il sogno di tutti è non fare una mazza». Del resto andare «a la playa» è sempre stato il sogno di Stefano Righi, che detto così ti chiedi chi è. E se ci aggiungi Stefano Rota il punto interrogativo rimane uguale. Come Johnson e Michael Righeira invece fa tutto un altro effetto: sono la coppia che con tre brani ha scritto la colonna sonora delle estati Anni 80. Da Vamos a la playa a L’estate sta finendo, con un intermezzo adatto a questi tempi (No tengo dinero), uno spagnolo da movida, da italiani a Ibiza, per una parabola eterna durata due sole stagioni (1983-1985). Ma 40 anni dopo quei pezzi sono ancora lì. Si erano conosciuti al liceo, amici per la pelle, finché la magia si è spezzata. Johnson Righeira da tempo è rimasto da solo. «Non è stato semplice far metabolizzare la nostra separazione, la gente non voleva un Righeira solo, ma da tempo le cose sono cambiate: oggi le mie 40-50 serate l’anno le faccio sempre».
Non fare niente. È questo il senso del suo nuovo singolo, «Chi troppo lavora (non fa l’amore)»? Un inno all’ozio?
«È un inno all’ozio ma anche a lavorare il giusto, pagati il giusto. Lo dico sempre a mio modo, senza voler fare grandi filosofie, con quel filo di cialtronaggine che mi accompagna da sempre».
Le radio non passano il suo nuovo singolo. C’è un circolino di eletti di cui non fa parte?
«Diciamo che mi tengono fuori dai giochi, chissà come mai».
Il titolo è un richiamo a Celentano.
«Altra piccola cialtronata inserita nel pezzo per evocare immediatamente una canzone che all’epoca suscitò polemiche. Era un periodo di lotte operaie e il senso era: se scioperi, non te la do. Il mio è un ribaltamento di prospettiva, è il concetto opposto: l’orario di lavoro deve essere equo, così uno ha anche il tempo di far l’amore».
Ha sempre giocato sulle contrapposizioni: «Vamos a la playa» parla di bomba atomica, radiazioni e mare fluorescente: i suoni dell’italo disco su un testo inquietante.
«La prima versione l’ho incisa nella mia cantina a Torino nel dicembre 1981 e suonava, anche musicalmente, molto più cupa e drammatica. I fratelli La Bionda però ne intuirono il grande potenziale, dissero che era troppo triste e che bisognava renderla allegra. Il loro intervento è stato provvidenziale, se no non saremmo qui a parlarne».

Quanto le rende in diritti d’autore?
«È il pezzo che rende di più, vale come una buona pensione. Al secondo posto c’è L’estate sta finendo».

Come se l’è goduto quel primo inatteso e incredibile successo?
«Poco, ero a fare la naja».
Il servizio militare.
«Intorno a Ferragosto stavo veramente scoppiando, mi stavo rendendo conto che mi stava succedendo qualcosa di miracoloso, ma io ne ero in qualche modo escluso perché vivevo una vita quotidiana da ufficio: tenevo l’archivio scritto a mano dei ricambi dei mezzi militari, segnavo i pezzi in entrata, i pezzi in uscita, mentre Vamos a la playa era un fenomeno».
Simulò una crisi depressiva?
«Non del tutto inventata. Ho cominciato davvero a sclerare: mi stava cambiando la vita e io ero lì, mi sentivo in carcere, era una situazione molto stressante fatta di sbotti e crisi quasi isteriche».
Come uscì dalla caserma?
«Raccontai balle che risultarono assolutamente inefficaci. A quel punto tirai fuori l’istinto di sopravvivenza. Supplicai lo psicologo, gli dissi che ero uno dei due di Vamos a la playa, che avevo bisogno di 20 giorni di permesso. Mi fecero tutto un gran discorso su quanto fosse importante fare il militare, ma alla fine mi concessero 20 giorni. E poi altri ancora. Ne sono uscito così».
E Michael?
«Nel frattempo era partito pure lui per il militare. In Germania abbiamo fatto un tour promozionale in tv con un sostituto, tanto non ci conosceva ancora nessuno. Michael fu “interpretato” da un mio caro amico che si è vissuto una settimana di super-fama in cima alle classifiche di tutta Europa. Oggi sarebbe impensabile».
«L’estate sta finendo» era pensata come hit balneare ma parlava del tramonto della stagione. Non era un controsenso?
«Infatti all’interno della nostra casa discografica c’era una moderata preoccupazione su come il pubblico l’avrebbe accolta, temevano che la gente pigliasse male il fatto che all’inizio d’estate arrivasse un pezzo che parlava della fine dell’estate. Invece le tematiche eterne affrontate dalla canzone – il tempo che passa, la paura di crescere – furono capite».
Tanto successo, tante donne?
«Ero molto timido e lo sono ancora. Non sono mai stato un donnaiolo. Sicuramente ho avuto molte meno donne di quelle che avrei potuto. Ma anche in situazioni sporadiche, quelle da una notte e via, ho bei ricordi delle ragazze con cui sono stato e non ho mai più visto. In fondo sono un sentimentale, da un testo come L’estate sta finendo dovrebbe essere abbastanza evidente».

Una storia da raccontare?
«È legata al mio primo singolo, Bianca Surf. Raccontavo una tristissima storia d’amore che mi era veramente successa, ma la buttavo in vacca, in allegria come mi è solito. Pensavo di concludere con una ragazza, invece a un certo punto a casa di amici ho sentito che lei era in camera con un altro con il letto che cigolava. Quindi ne ho desunto che non essendoci io... Questa componente ironico-sarcastica è una delle cifre dei Righeira»
Follie?
«Il mio stile di vita si è inevitabilmente alzato, ma non ho mai fatto grosse follie, per il piacere di farle. Certo non ho mai accumulato denaro... non sono neanche riuscito a farmi la villa con la piscina».
Quale fu il motivo del primo scioglimento con Michael?
«Quando abbiamo attraversato quel periodo di difficoltà a fine Anni 80 l’insuccesso ha generato reazioni diverse. Io l’ho vissuto in modo più superficiale, Michael forse in modo più profondo. Tra di noi è venuto a mancare l’aspetto del gioco che era quello che aveva generato l’empatia, la sintonia degli inizi. Abbiamo cominciato a prendere strade diverse, avevamo visioni di vita differenti e questo ci ha progressivamente allontanati fino a non avere più niente in comune».
Oggi vi sentite?
«Per cose normali, di cortesia o lavorative. Non ci sentiamo per raccontarci le nostre vite, ma quello non succedeva neanche più negli ultimi anni, soprattutto da parte sua».
La critica era dura con voi. Come la viveva?
«Molto male. Pativo terribilmente perché ero convinto – come seppur con un certo ritardo si sono resi conto in tanti – che le nostre canzoni avevano contenuti paralleli, piani di lettura e citazioni che la critica ha snobbato, fermandosi solo a un’analisi superficiale. Io ci soffrivo: magari eravamo primi in classifica, leggevo una recensione negativa e mi incazzavo come una bestia».
Il vostro rivale?
«Con Gazebo c’era una certa rivalità perché ci contendevamo i primati in classifica, lui spaccava in Germania, noi in Italia più di lui. All’epoca ci si incrociava poco ma poi Paul (Mazzolini, vero nome di Gazebo) è diventato uno dei miei più cari amici del mondo musicale».
Un ricordo indelebile del successo negli Anni 80?
«C’è un ricordo che mi lascia sempre a bocca aperta se ci ripenso. Eravamo a Parigi per un programma tv e incrociamo i Culture Club. Boy George ci guarda e si mette a canticchiare Vamos a la playa, oh oh oh oh. Calcolando che fino a qualche mese prima io compravo i suoi dischi, capisce che flash è stato».