Avvenire, 26 luglio 2025
Nel Venezuela sotto sorveglianza Maduro prepara il colpo di mano
La prima contraddizione balza all’occhio dal finestrino dell’aereo: architettura coloniale e palazzi contemporanei circondati dai cerros, le baraccopoli, da “Petare” a “23 de enero”, dove vivono circa 18 milioni di persone, oltre la metà dei più poveri degli abitanti di Caracas, molti dei quali provenienti dalle aree interne. Un tempo i cerros avevano smesso di essere gli spalti da cui i poveri assistevano al trionfo dei ricchi, diventando un soggetto politico che vinceva alle urne e sognava la rivoluzione. Ora di quel sogno rimane ben poco: qualche scatto in aeroporto, che ricorda i primi anni di governo di Hugo Chávez.
Poi un manifesto sul muro: il volto cupo dell’ex-candidato presidenziale Edmundo González Urrutia, accompagnato dalla scritta “Se busca” (“ricercato”), con un elenco sterminato di accuse fra cui “terrorismo” e “cospirazione”. È passato un anno dall’elezione del 28 luglio 2024: González aveva i voti – e girava sempre con i verbali di scrutinio in tasca – ma Nicolás Maduro è comunque rimasto in sella. Qualcuno passa, vede quel manifesto e se la ride. Intanto l’ex-candidato resta in esilio, a Madrid, e non è più tornato a Caracas, anche se lo aveva detto in tutte le salse, persino ad Avvenire.
L’unico vero risultato: la recrudescenza delle tensioni tra Caracas e i Paesi occidentali e più di duemila detenzioni arbitrarie, di cui oltre 150 contro stranieri.
«Occhio agli stranieri! Non farli entrare nella fila dei venezuelani», intima un agente della Polizia nazionale bolivariana a una giovane impiegata, chiedendole di aprire gli occhi. Il filtro deve funzionare, altrimenti «entrano i mercenari», dicono. Ma la cultura locale aiuta e talvolta un sorriso, una gentilezza o un gesto d’umanità aiuta l’agente a uscire dalla rigidità imposta dalla divisa.
Gli stranieri vengono fermati anche alle frontiere, com’è successo ad Alberto Trentini nella località di Guasdualito, al confine con la Colombia. «Perché l’Italia, che qui ha ambasciate e consolati, non riesce ancora a riportarlo a casa?», si interroga un connazionale residente nel Paese sostenendo che gli Usa, «che qui non hanno nessuno, fanno rilasciare i loro ostaggi».
Il Venezuela è sorvegliato, con vetture dei servizi e del controspionaggio che ogni giorno pattugliano le strade. È vero: sono stati rilasciati, dal 18 luglio, 102 prigionieri politici in cambio di 250 migranti giunti da El Salvador. Ma nel frattempo hanno fermato altri trenta oppositori, senza contare i cento lavoratori della statale Pdvsa fermati per ragioni ancora ignote.
La situazione resta tesa, soprattutto in vista delle elezioni municipali di domani. Si tratta dell’ultima battaglia di Maduro contro quel che resta delle opposizioni. In palio ci sono 335 municipi e 2.471 seggi per i consigli comunali. L’obiettivo è espugnare le ultime roccaforti dell’opposizione. È il caso di Maracaibo, la seconda città più importante del Paese, dove è stato candidato l’ex-console venezuelano a Milano, Gian Carlo Di Martino, accusato di diverse trame di corruzione. «È costata un milione di dollari», aveva confessato lo stesso Di Martino nel 2016 alla testata locale Panorama, raccontando di aver sborsato una tangente consistente ai rappresentanti della Conmebol e della Fifa, tra cui Joseph Blatter, per portare la finale della Coppa America 2007 allo stadio Pachencho Romero. Le riprese di quella partita – Brasile 3, Argentina 0 – tornano sullo spot elettorale del candidato, che ora usa le tangenti per convertire i militanti del partito rivale. Se ne contano 500, per ora.
Del resto la campagna è sottotono, con l’opposizione divisa tra astensionisti e promotori della partecipazione, generando non poca confusione tra gli elettori. «Non possiamo lasciar perdere il municipio, altrimenti è la debacle», racconta sottovoce un’elettrice, «ma non sarò io a votare: dopo i brogli alle presidenziali ho giurato a me stessa che non mi sarei più recata al seggio».
Ma la priorità è la sopravvivenza. I prezzi si contano in dollari e la gente guadagna in valuta locale. Al 23 luglio, un dollaro valeva 120,27 bolivar. Per dare un’idea: lo stipendio minimo mensile è di 130 bolivar, cioè un dollaro e mezzo. «Qui non si vive con un lavoro normale, ma con rimesse o il commercio», dice un ristoratore ad Avvenire, «il dollaro aumenta tutti i giorni e per tenere aperta l’attività devo gonfiare i prezzi. Non ho alternative». Sembra che altre risorse circolino grazie al ritorno di molti migranti, compresi gli espulsi dagli Stati Uniti e dal resto del continente. «Finalmente si rivede qualche auto, non circolava più niente l’anno scorso», dice José Martinez, anch’egli commerciante. «Io non andrei altrove, qui i soldi girano se ti dai da fare. E nessuno ti disturba». Resta da apprezzare il miracolo laico dell’amore per le cose concrete, e pian piano si guarisce da illusioni e chimere di un tempo. Forse da qui si potrà ripartire.