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 2025  luglio 26 Sabato calendario

Il segreto di zio Tonello

La stanza dei sogni era in fondo al corridoio, dalla parte opposta alla finestra smerigliata inondata di luce. Era chiamata “lo studio” e sulla doppia porta che scricchiolava di legno smaltato bianco vigeva la legge intesa in due sensi. La legge che mia madre mi raccomandava sottovoce e portando il dito sulle labbra prevedeva che non venisse disturbato mio padre quando si chiudeva lì a lavorare, ossia a scrivere, come ogni vero avvocato, in difesa della legge. Certe volte, però, nella sua eterna bonomia, mio padre mi spingeva a farmi avanti e infrangere la legge nel primo senso della parola per passare del tempo con lui mentre lavorava. Allora mi mettevo lì, sul divanetto verde, e lo guardavo. Illuminato dalla luce fioca di una lampada, mentre la musica classica suonava dal giradischi, lo vedevo chino sulla scrivania impugnando una penna a sfera mentre inondava fogli leggerissimi e giallognoli con una grafia microscopica fatta di piccole onde e a tratti pennacchi in su e in giù che ai miei occhi non avevano se non il senso del mistero.
Quando non sai né leggere né scrivere, la scrittura è pura magia. Io sapevo, infatti, che seguendo quelle onde e quei pennacchi si apriva un mondo e chiedevo a mio padre di leggere e lui leggeva con la sua voce dolce e le sue erre mosce e io seguivo i periodi complessi e le parole sconosciute come fossero una musica solo poco diversa da quella del giradischi. A volte, lui si fermava e mi diceva che una certa espressione era latino e me la spiegava, ma io non capivo neppure la spiegazione. Tenevo gli occhi sui tomi che popolavano la libreria realizzata da un vecchio falegname chiamato Faddili e immaginavo le pagine piene di quelle storie musicali che mio padre andava scrivendo.
Sapevo bene che gli scritti di mio padre non diventavano libri. Lui le chiamava “comparse”. Ma proprio quella parola rendeva le sue storie vive e magiche. Tutto questo divenne chiarissimo quando decise di scrivere una comparsa per me. Si trattava di portare in giudizio l’odiatissima Signora dei Cani, una tipa singolare che circolava nel quartiere, molto arrogante, cattivissima con i bambini e sempre al traino di tre orribili cagnetti (allora rarissimi) con canottiere d’estate e piumini d’inverno. La storia che mio padre inventò riguardava le innumerevoli cacche che i cagnetti ridicolmente vestiti lasciavano sui marciapiede della via. Su una di quelle cacche – stando alla storia – la mia bicicletta aveva finito per scivolare procurandomi danni a un ginocchio come in effetti era capitato tempo addietro per altre cause. La comparsa dunque chiamava a un risarcimento e imponeva la promessa di raccattare gli escrementi canini, in caso usando i giubottini colorati degli orridi esseri a quattro zampe. Io mi sbellicavo dalle risate, quando mio padre leggeva, correggeva, rimaneggiava. Il picco fu costituito dall’espressione “nelle more” che lui volle aggiungere (diceva che avrebbe colpito il giudice) e che – lo scoprii sconcertato – nulla aveva a che fare con le more di cui io ero ghiotto. Quando, dopo un lungo lavoro di lima, la comparsa fu ultimata, mio padre mi disse che avrebbe dato il manoscritto a Claudia, la ragazza che lavorava nel suo ufficio, perché la battesse a macchina così da averne una copia da portare in tribunale.
Furono giorni di grande attesa. Che si conclusero quando andai con mia madre a ritirare una copia della comparsa. L’ufficio si trovava poco lontano da casa, e quando si entrava nel grande atrio di marmi e quadri antichi, con l’odore inconfondibile, un mondo fiabesco si apriva. In genere, prima di salire, dal cortile, mia madre mi spingeva a chiamare il nome di mio zio. «Tetello, Tetello» gridavo io che non sapevo dire il suo vero nome, ossia Tonello, come era sempre stato chiamato Antonio Nucci fin dalla sua infanzia. Zio Tonello, avvocato di un’altra epoca, era un uomo bellissimo. Si affacciava felice alla finestra e faceva un gesto come a dire «salite su subito, che fate lì?». Vestiva con eleganza molto rara e molto sobria, sorrideva luminoso e ci accoglieva nelle sue stanze. Dico “sue” perché in quell’appartamento della Roma di inizio Novecento che era l’ufficio legale, lui viveva. Su uno dei due corridoi affacciavano cucina, stanza da letto e salotto. Sull’altro invece si aprivano le stanze del lavoro. Era lì che trovavo mio padre alle prese con gli stessi fogli di carta leggerissima e giallastra su cui scriveva in casa. Era lì che trovavo Claudia davanti alla macchina da scrivere Olivetti su cui picchiettava senza tregua, con movimenti per me stupefacenti, di cui era capace soltanto un’altra persona oltre a lei: mia madre.
La stanza di Claudia era l’apoteosi del magico. Penne, pennine, gomme per cancellare, cartelline, pennelli per correggere, nastri, scotch, fogli, foglietti e soprattutto un foglio assolutamente magico, detto “carta carbone”. Lo si infilava fra un foglio e l’altro quando si batteva a macchina e grazie alle sue proprietà il testo si reduplicava sui fogli retrostanti. Fu grazie alla carta carbone che io vidi le tre copie della famosa causa contro la Signora dei Cani, ne arraffai una e la portai via con me, chiedendo poi a mia madre di rileggermela appena fossimo rientrati. Lei rideva, mentre tornavamo per le vie familiari e passavamo dal mercato eppoi dal pizzicagnolo, un tipo che si chiamava Benito con cui lei aveva rapporti complicati e infatti disse che la causa avremmo dovuto farla sul serio, ma contro Benito che spacciava prodotti scaduti con i vermi dentro. A me non stava antipatico Benito. Lo salutavo e lui ricambiava. E salutavo anche il barbiere, un uomo grosso dalla faccia segnata dall’acne che mi metteva a sedere sul cavalluccio e mi tagliava i capelli cercando di farmi la riga da una parte come a me non piaceva affatto, ripetendo che avrei dovuto usare il balsamo per ammorbidirli.
Ma quel giorno avevo fretta. Volevo riascoltare la storia della Signora dei Cani e non pensavo a altro che non fosse la “comparsa” di mio padre di cui avevo seguito ogni processo, dalle prime scritture fino alle revisioni e agli aggiustamenti su quei ghirigori fatti di cancellature e riscritture, poi le letture e le ulteriori correzioni, poi la scrittura metallica, a macchina, e la copia carbone che rendeva quella storia pubblica, pronta a girare di mano in mano. Io ne possedevo la prima copia e adesso potevo rileggermela quanto volevo. Rileggermela, figuriamoci. Mi mettevo sotto al letto e la illuminavo con una lampadina e mormoravo frasi memorizzate dalle letture precedenti mescolate a frasi di mia invenzione, perché io proprio non ero capace di riconoscere neppure una lettera dell’alfabeto. Eppure leggevo. Così dicevo. Tutti ridevano e io me la prendevo, mi offendevo, scappavo via, m’infilavo di nuovo sotto al letto e riprendevo la mia lettura ribelle.
Poi accadde qualcosa che cambiò tutto in casa mia. Una sera, sentii mia madre che bisbigliava quel che le aveva detto zio Tonello. «Probabilmente questa che sto scrivendo è la mia ultima comparsa». Mio padre non rispose. Pochi giorni dopo, zio Tonello morì nel suo letto, a pochi passi dalle stanze della scrittura magica. Fu una rivoluzione per tutti noi. Non solo il dolore della morte irrompeva con tutti quei sussurri e quei silenzi che rendono la morte inutilmente misteriosa e ancora più temibile. Ma soprattutto mio padre si trovò a dover prendere in mano l’ufficio: il lavoro per lui si fece massiccio e a tratti forse insopportabile, fatto sta che raramente adesso lavorava nello studio di casa, era sempre in ufficio o fuori con clienti difficili, e se si chiudeva in studio non poteva invitarmi a giocare con le storie o a osservarlo e ascoltarlo mentre scriveva comparse senza fretta. Al tempo stesso, però, capitò qualcosa che rese tutti entusiasti. Mentre metteva a posto le carte di suo zio, mio padre, infatti, trovò il manoscritto di un romanzo. La voce si diffuse in famiglia, frenetica. Mio nonno Goffredo, fratello di Antonio, un ingegnere umanista che di sera leggeva Tacito in latino, disse che era un libro molto bello, molto proustiano. Al tempo io non sapevo né cosa fosse un romanzo, né chi fosse Proust. Sapevo solo che i due fratelli Nucci, Antonio e Goffredo, avevano vissuto la rivoluzione di Proust, amavano questo scrittore così innovativo e sostenevano che lo si poteva leggere soltanto in francese. Ora, comunque, mio zio aveva fatto tesoro del lavoro sulla memoria contenuto nell’opera di Proust e aveva lasciato nel cassetto l’opera di cui mai aveva fatto parola con nessuno.
S’intitolava Leone Davidson ebreo il libro che fu poi pubblicato dalla casa editrice Carucci. Raccontava una storia di quelle che mio zio conosceva benissimo, tanto lui era stato legato alla comunità ebraica romana. Io non potevo capirlo – dissero. Ma quel che sapevo mi bastava. Sapevo da sempre che i due fratelli Nucci, durante l’occupazione nazista, avevano nascosto amici ebrei nella casa-ufficio e li avevano aiutati a fuggire all’estero, rischiando, ogni volta, la pelle. Erano storie di avventura che credevo di trovare dentro al libro il giorno in cui avessi finalmente avuto la capacità di leggere. Ma sarebbero passati molti anni e non sarei stato deluso quando avrei scoperto che si trattava di tutt’altro. Del resto, in quei mesi di enormi cambiamenti, io avevo altri pensieri. M’interessò soltanto sapere che mio zio, in gioventù, aveva pubblicato un libro di racconti e che – come diceva suo fratello Goffredo, mio nonno – «in effetti il povero Tonello è stato sempre scrittore». Non avevo dubbi al riguardo. Sapevo che anche mio padre era scrittore e sapevo che quelle storie a cui davano vita i creatori di comparse erano storie piene di luce, piene di sensi che si aprivano nel mondo, piene di ribaltamenti di fronte come le vere favole d’avventura. Non m’interessava che mio padre dicesse di non essere, lui, scrittore come lo zio. Per me lo era e basta. E fu per questo che presi la grande decisione.
Dalla stanza di Claudia arraffai dei fogli giallognoli e dei pennini che scrivevano come inzuppando il foglio di inchiostro. Poi presi della colla e delle forbici e in una di quelle mattinate in cui ero lì “a giocare” come dicevano gli adulti, mentre papà lavorava e Claudia mi sorrideva e mi controllava, io realizzai il mio primo libro. Era un libretto per essere precisi. Tagliai i fogli di una dimensione piuttosto ridotta, chiesi a Claudia di usare la spillatrice su un lato per rilegarli, poi incollai sulla prima pagina un disegno di pirati che avevo realizzato qualche tempo prima e che era stato molto lodato, quindi iniziai a riempire le pagine della mia storia. Con il bel pennino facevo onde e ghirigori, stampellette, pennacchi, e seguivo le righe immaginarie calcando solo sulla pagina destra, quella che – lo avrei scoperto un giorno – è segnata dal mio numero preferito, il dispari.
Scrissi fino a stancarmi, poi ripresi il lavoro e mentre scrivevo immaginavo le storie da leggere in quelle righe, le avventure di pirati, tigri della Malesia, corsari di ogni colore, mari pieni di pescecani e giungle zeppe di tigri. Mi stancai molto a scrivere tutte le pagine che avevo messo insieme e, dalla metà in poi, le righe si fecero più rade, più sbilenche e più malmesse. Questo mi diede un po’ fastidio, però a fine mattina il libro era pronto e lo mostrai a mio padre che rideva entusiasta. Mi chiedeva di leggergli la storia e intanto metteva a posto la scrivania per uscire insieme e tornare a casa a pranzo. Io gli feci una sintesi, dicendo che poi, se voleva, quando aveva tempo, glielo avrei letto per intero. Quindi salutammo Claudia e ci avviammo e lui mi disse che era felice di sapere che avevo finalmente iniziato a scrivere. Era felice che anche io come zio Tonello potessi farmi scrittore. Così tornai a casa saltellando. Ripetevo di essere scrittore e sostenevo che un giorno i miei libri sarebbero andati nel mondo. Non ho mai smesso di pensare alla magia della scrittura, negli anni che sono venuti, quando ho imparato a riconoscere tutto quel che so e che non so. Perché in effetti, io ho cominciato a scrivere prima di imparare a scrivere. È questa la verità.