Tuttolibri, 19 luglio 2025
Ho bisogno di avere un frigo enorme che sia sempre pieno
Nei libri di Rosella Postorino, la casa si fa spesso archivio emotivo oltre che teatro di storie intime che, varcata la soglia, si immettono nella storia collettiva. Con la sua scrittura profonda, stratificata e sensibile, Postorino spesso riflette su cosa significhi abitare: non solo uno spazio o un tempo, anche una ferita.
Per alcuni la casa è un rifugio, per altri una nave. Non è detto che qualcosa di immobile debba necessariamente essere privo di avventure. La sua casa è avventurosa?
«Prima, quando ero giovane, la casa era mobile, ci si viveva in tanti, non solo chi pagava un affitto, e si poteva dormire in ogni stanza, anche con un materasso buttato a terra, i vestiti erano di tutte, si mangiava alle ore più disparate e si chiacchierava fino all’alba. Forse, se fai figli, il senso di sorpresa si rinnova, ma non ne ho fatti, e l’idea di casa come avventura credo sia finita con la giovinezza. Oggi la casa è per me riparo, è il luogo dell’intimità più spudorata, il contraltare della mia vita pubblica e il luogo in cui scrivo. A pensarci, è anche il risultato dell’avventura di scrivere; se non avessi pubblicato Le assaggiatrici, non avrei avuto i soldi per un anticipo, non avrei acceso un mutuo. Non era previsto, non era lo scopo né forse un desiderio, è stato un effetto collaterale. Poiché però è accaduto, in questa casa mi sono concessa per la prima volta uno studio: ha i pavimenti originali dei primi del ’900, cementine esagonali rosse, grigie e blu; tutte le pareti, tranne quella con la finestra, sono librerie fino al soffitto. È lo spazio in cui scrivo i miei libri, lavoro a quelli altrui, vado sul tapis roulant, faccio yoga nidra, tengo le foto con le mie amiche e con i loro figli, i regali dei miei lettori, gli stampini di Poochie che due amici hanno recuperato per me, sapendo che da piccola li adoravo, e uno dei vari cuscini su cui può acciambellarsi il mio cane. Potrei dire che è la mia stanza tutta per me, perché simboleggia l’indipendenza economica che secondo Virginia Woolf era necessaria alle donne per scrivere, ma a volte ci lavora anche il mio compagno, e questa condivisione è un segno preciso della nostra convivenza. Non potrei condividere la mia scrittura con nessun altro, a parte lui».
Oggi per molte persone la casa è protezione. Per molto tempo però è stato un luogo di costrizione, soprattutto per le donne. Quando era bambina come viveva la sua casa?
«Da bambina potevo decidere indifferentemente di mangiare a casa, o da mia nonna, o da mia zia: quelle case erano un po’ tutte “mie”. Quando ci siamo trasferiti al Nord questo senso di comunità si è dissolto, casa mia era una e basta, e questo esprimeva meglio di qualunque altra cosa la solitudine dell’essere estranei in un luogo in cui non si è nati, in cui si è appena arrivati. Della mia stanza da piccola – ancora oggi identica – amavo il mobile con cassetti, scaffali e un’anta che, se l’aprivi, diventava scrivania. Custodite dall’anta chiusa, ci sono ancora scatole piene di lettere, il mozzicone della prima sigaretta che ho fumato, disegni, e orecchini che da adolescente ho avuto il coraggio di indossare».
C’è la struttura, poi c’è l’arredo. Insomma: un essere e un apparire. La sua abitazione in cosa le assomiglia?
«Mi sono innamorata delle finestre ad arco e del giardino su cui si affaccia la zona giorno: sia d’estate sia d’inverno, se tieni aperto, senti gli uccellini cinguettare. Non sembra di essere a Prati, uno dei quartieri più affollati di Roma. Dice il mio bisogno di stare in mezzo alla gente e insieme di sottrarmi. Il frigo è enorme e sempre pieno (ho ereditato questo bisogno da mio padre), ed è rosso, il mio colore preferito. I mobili della cucina sono verde bosco, per questo quella zona della casa mi somiglia: può attrarti perché inattesa, oppure sembrarti assurda. C’è tanto legno, chiaro, non solo nel parquet; un’amica mi ha detto che sembrano i mobili di una casa al mare, e in effetti io al mare sono nata e cresciuta».
C’è qualcosa di casa sua a cui non riuscirebbe mai a dire addio?
«La luce che arriva dal cortile, soprattutto d’estate, benché l’appartamento sia al primo piano. Da lì vedo le magnolie, gli oleandri, i cedri del Libano, le bouganvillee, e anche i panni stesi dei miei vicini, il portinaio che annaffia e vizia tutti i cani del palazzo, compreso il mio. Sento il rumore della vita degli altri scorrermi accanto e questo mi calma».
So che fa molte lavatrici. Lo stendino, se ce l’ha, dove lo mette?
«Ho finalmente un’asciugatrice! Ma ho uno stendino per ciò che non posso mettere nell’asciugatrice, lo apro nella stanza del cane e degli ospiti. Funziona così: il cane sa che non può salire sul divano in soggiorno, ma in quella stanza ha un divano suo. Se ospitiamo qualcuno, lo apriamo per farlo diventare letto, e il cane lì non entra, a meno che l’ospite non lo accolga».