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 2025  luglio 19 Sabato calendario

Quando Hollywood disse no: "Lo può girare solo un italiano"

Quando Il giardino dei Finzi-Contini uscì (1962), il suo successo popolare fu tale da intimidire per un po’ i sostenitori della nuova letteratura, che affettavano di considerare il suo autore, Giorgio Bassani, come il sopravvissuto di un gusto per la narrativa ottocentesco, retorico e superato. Ma veri detrattori il romanzo non ne trovò neanche allora, e naturalmente anche il cinema lo cercò immediatamente. Era l’epoca d’oro del cinema italiano, a quel punto però forse più produttivamente che qualitativamente, perché la grande spinta dei giovani autori del decennio precedente cominciava a cedere alle lusinghe di un mercato allargato e agli investimenti dei produttori americani, che trovavano in Italia strutture e talenti a buon mercato; ma che in cambio chiedevano prodotti adatti a varcare l’Atlantico.
C’era comunque una vera sete di nuovi spunti, e naturalmente la gara per assicurarsi i diritti del romanzo cominciò subito. La vinse un produttore intraprendente, Gianni Hecht Lucari proprietario della Documento Film, il quale si mise subito all’opera per realizzare un prodotto all’altezza delle attese. Scritturò uno dei più interessanti registi della nuova generazione, Valerio Zurlini, ferrarese come Bassani e a lui affine anche in quanto lettore instancabile e appassionato di arti figurative (era tra l’altro amico e collezionista di Giorgio Morandi). Zurlini scrisse una sceneggiatura eccellente – io ne so qualcosa, all’epoca lavoravo part time per la Documento, segnalando libri e leggendo copioni. Ma poi successe qualcosa che rivoluzionò tutti i progetti.
Successe che Gianni Hecht fece amicizia con un suo collega produttore italo inglese, Joseph Ianni. E successe che Ianni aveva sotto contratto per un film un’attrice che aveva scoperto e fatto debuttare qualche anno prima, e che aveva appena raggiunto l’apice del successo come protagonista di un grandioso film epico, Il dottor Zivago. Stiamo parlando di Julie Christie, e potete immaginare la reazione di Gianni Hecht quando si sentì proporre la Christie dall’amico. «Ho sentito che state cercando Micòl…»
Julie Christie in quel momento sarebbe stata un passaporto alla distribuzione in tutto il mondo. C’era solo un problema. Zurlini era troppo poco noto all’estero per affidargli una diva di quella portata. Perché non sentire David Lean? Che aveva promesso alla Christie di tornare a lavorare con lei, dopo Zivago?
Così il progetto fu proposto a David Lean, che sulla carta si dichiarò molto interessato. Hecht, che era un buon giocatore di bridge (aveva sfidato anche Omar Sharif), decise di puntare tutto sull’accoppiata Lean-Christie, e pertanto liquidò il povero Zurlini, pagandogli, si capisce, il contratto.
Si era ormai nel 1966, ma passò un altro anno abbondante in attesa che David Lean, il quale era notoriamente lentissimo nella preparazione dei suoi lavori, sottoponesse un progetto definitivo.
Alla fine la bomba scoppiò. Arrivò una lunga, dettagliatissima e meditatissima lettera del grande regista (chissà che fine avrà fatto, la Documento Film non esiste più da tanto) in cui costui rinunciava al progetto e spiegava per esteso il perché. «Ci ho molto pensato e ho molto studiato», diceva in sostanza, «ma mi sono reso conto che questo film lo può fare solo un italiano. Solo un italiano che ha vissuto in quel paese e sotto quel regime può capire davvero e quindi rendere la condizione di ebrei come questi, che praticamente non si sono mai sentiti diversi dal resto della popolazione e che quindi faticano a capire cosa sta succedendo».
Niente più David Lean! Niente più Julie Christie! E niente più Zurlini. Mentre sopravviveva la speranza di riuscire a fare un film che varcasse i confini nazionali – un film interessante anche per il resto del mondo, dove il romanzo originale non era noto come in Italia.
Venne allora fuori, quasi in extremis – ormai si era nel 1969 – il nome di Vittorio De Sica, certo illustre internazionalmente, soprattutto in America dove si sperava di vendere il prodotto, ma reduce da due o tre mezzi insuccessi. De Sica comunque accettò. E ricominciò la ricerca di Micòl. Ricordo che venne fatto un provino perfino a Patty Pravo, allora nel fulgore della sua bellezza, ma che risultò poco utilizzabile nei primi piani per una bocca che sullo schermo diventava larghissima. Alla fine fu scelta la semisconosciuta francese Dominique Sanda, della quale un critico americano, Jay Cocks, avrebbe poi scritto, recensendo il film, «of nearly impossible beauty».
De Sica fece il miracolo. Adottò una sceneggiatura senza impennate, molto fedele al libro. Di quella di Zurlini, che non si poteva adoperare, rimase solo la descrizione del rastrellamento da parte delle SS, girato in chiave quieta, burocratica, senza grida e senza violenza, e così tanto più agghiacciante. De Sica fece deportare anche il padre del protagonista (com’era stato dell’uomo alla cui storia Bassani si era ispirato), ma poiché questo non avviene nel romanzo per motivi autobiografici (il vero padre di Bassani si era salvato), lo scrittore si indignò dalla licenza e volle togliere la sua firma del film.
Il quale peraltro se la cavò benissimo anche così. E in America vinse un Oscar, l’ultimo della favolosa carriera di De Sica. Io non l’ho più rivisto da allora. Chissà che effetto mi farebbe.