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 2025  luglio 19 Sabato calendario

Ma chi sei, Peter Handke?

Volevo fare il musicista. La musica è una forma d’arte superiore alle altre. Una nota sola e sei altro da te. Anche la danza lo è. Pure la pittura, ma la musica è diversa. Anche una brutta canzonetta può metterti di buon umore. La mattina al bar, magari una mattina uggiosa, hai fatto brutti sogni, guardi le facce degli astanti e sono peggio della tua. Ma arriva dalla radio un ritornello, fosse pure mediocre, è un attimo, il tempo di assorbire la melodia, e ti accorgi che piano piano le persone accennano la canzone, prima a bocca chiusa, con un mugugno melodico, finché il mugugno da sottofondo si trasforma in coro e così, cantando tutti insieme affrontiamo tutti insieme la mattina uggiosa con un espressione più risoluta. Vuoi mettere con la narrativa? E quando lo ottieni un effetto così? La musica è la pre-oralità, prima che capissi il linguaggio, ammesso che dopo tanti sforzi sei davvero capace di dominarlo e usarlo, prima che ci fosse la parola di senso compiuto c’era il canto, la musica, la ninna nanna che tua mamma accennava. Mica nella vita cerchiamo la verità? Ma no. Speriamo solo d’essere amati, accettati e tutto quello che assomiglia all’amore e all’accettazione, e dunque la consolazione, la protezione (che sono declinazioni dell’amore e dell’accettazione), tutto questo una ninna nanna te lo può fornire. Che poi le ninne nanne non sono solo nenie, mica ci vuole per forza la cantante, l’orchestra: le ninne nanne sono anche rumori.
Quando sei in riva al mare, tardo pomeriggio, la risacca è una ninna nanna, pure le voci dei bambini, mischiate ad altri suoni. Un sottofondo sonoro pre-orale così simile alla ninna nanna. Sei così protetto che, fateci caso, il sole non tramonta, i palloni che vagano nell’aria non disturbano, il tempo si è fermato e anche quella sensazione di felicità che stai provando ti sembra dilatata. Tutto merito della musica. Per questo volevo fare il musicista, ma non ero capace.
Avrei anche scommesso, a un certo punto della mia vita, da adolescente, che forse la carriera sportiva potesse assomigliare alla musica. Le grida del pubblico, lo stridore delle scarpe sul parquet. Ma nemmeno quello sono stato capace di fare. Quindi né musicista né sportivo. Un vero dramma per un adolescente. Poi balbettavo, quindi non riuscivo a parlare. Anche per questo nutrivo poche aspettative nella scrittura. Ho parlato tardi. Per esprimermi emettevo suoni cacofonici ed onomatopeici, lo zucchero per me era dink dink. Forse per me lo zucchero erano cristalli che in caduta libera come monetine suonassero quelle note, dink dink. Poi ho balbettato fino a 17 anni, suppergiù.
In un mondo dove le prestazioni maschili si definivano con la pusteggia, ovvero una specie di dichiarazione cantata con la quale facevamo capire alle donne quanto erano belle, quanto e perché ci piacevano (inventando giustificazioni che poi ci saremo rimangiate), in questo mondo un balbuziente non aveva accesso. Quando ricordo com’ero nei gruppi mi rivedo in disparte, intento ad assorbire le parole altrui. O a provarle in testa mia per farle mie alla prossima occasione. Mi rivedo a chiedermi: ma chi sono io? Non so cantare, non so giocare (bene) a basket, non so parlare, dunque chi sono? Mi rivedo intento a cercare rimedi, almeno per parlare. Per esempio vado dal giornalaio e cerco di comprare La Repubblica, la r era difficile da pronunciare, quindi Repubblica era un buon esercizio. Non ci riuscivo mai e compravo Il Mattino per non incepparmi nella r. A un certo punto nemmeno Il Mattino sono stato più capace di pronunciare, e allora chiedevo il manifesto. Di questo almeno non posso lamentarmi, ho appreso delle diverse posizione politiche solo per la mia difficoltà a pronunciare la r. Tra l’altro, quando poi finalmente sono riuscito a comprare La Repubblica mi è rimasto sempre, mentre leggevo, un senso di inadeguatezza, come quando entri in un club che non ti vuole.
Oppure mi rivedo ad ascoltare le altre persone. Il modo di parlare, gli appoggi con la voce che cercavano, gli anacoluti che inventavano per aprire un discorso, le digressioni che mettevano in scena, la capacità di intervenire sulla solita trama per creare altre strade. Oppure la tendenza a partire da un aneddoto divertente per arrivare a una riflessione seria sulla vita: arte popolare, sentire comune da cui partire per sentire di più. Tutti modi di raccontare che piano piano assorbivo, convinto che prima o poi avrei utilizzato.
La scrittura è un’arte, per me non tra le principali, perché appunto, parlare mi è sempre stato ostico, dunque anche scrivere mi faceva e mi fa fatica. Però nella scrittura c’è un vantaggio. Se proprio vuoi scrivere devi leggere. Io ho imparato a leggere molto tardi. Prima leggevo a mente, chi aveva il coraggio di farlo ad alta voce, quelle volte in cui a scuola ero costretto, dietro di me si alzavano commenti di sfottò. Quindi all’inizio la lettura è stata solitaria, una cosa tra me e me. Non condivisibile. Insomma, al tempo non ce n’erano ma anche se ci fossero stati non avrei frequentato gruppi di lettura. Poi avrò preso coraggio, sia a leggere a qualcuno che conoscevo una cosa che mi era piaciuta, poi a ragionare su questa cosa. Poi infine, ma avevo già 20 anni, a scrivere. Se prima, durante l’adolescenza ero un silenzioso osservatore, dopo i 20 anni raccontavo solo storie. Non storie mie, storie inventate o storie che citavo. Una volta una ragazza mi chiese: ma perché parli per citazioni? Perché non dici niente di te? Perché ti nascondi attraverso le storie? Cominciai allora a scrivere delle lettere, ad amici e alle ragazze. Per un periodo devo essere stato grafomane. Forse, non me ne sono reso conto ma avrò sicuramente scritto un romanzo epistolare, indirizzando lettere nelle quali raccontavo fatti miei e nello stesso tempo fornivo l’occasione al mittente per raccontarmi i fatti suoi. Così, con questo scambio e con un proposito di scambio è iniziata la mia attività di scrittore. Poi il caso ha fatto il resto.
Lavoravo a Minimum fax e conoscevo Goffredo Fofi. S’era convinto che fossi un poeta. Dopo la musica, la pittura e la danza, il cinema io metterei la poesia. Ma mi piace così tanto (la buona poesia, quella cattiva può rovinarmi la giornata) che non ne ho mai scritto una. Cioè, una sì. A scuola, in terza o quarta elementare, per la festa della mamma, ma non ricordo se a mia mamma piacque, forse no. Però Fofi al tempo aveva cominciato a fare una rivista, Lo Straniero e doveva anche curare un’antologia di nuovi scrittori del Sud. Quindi mi disse: portami le tue poesie. Marco Cassini gli disse: credo che scriva racconti. E Fofi mi disse: portami i tuoi racconti. Ne avevo scritti solo tre, Altobello sulla soglia (che giudicavo un capolavoro) Stato di manutenzione degli affetti e La Controra. Marco Cassini mi disse che Altobello sulla soglia era stato strappato (e Fofi aveva anche smadonnato) invece Stato di manutenzione degli affetti e La Controra gli erano piaciuti. Mi chiamò. Mi contestò il titolo di un racconto: Stato di manutenzione degli affetti: ma chi sei, Peter Handke? Togliamo stato, Manutenzione degli affetti è meglio. Questo racconto lo pubblicò nel secondo numero della rivista Lo Straniero mentre La Controra nell’antologia Luna Nuova. È cominciato così per caso, ma desiderando tanto fare il musicista, ma anche il regista, il poeta, lo sportivo, e ricordandomi sempre di quelli che ascoltavo in disparte, nonché delle lettere che scrivevo, ho cercato, senza averne la struttura teorica, una narrazione popolare e che fosse musicale, piena di immagini, poco e per niente spiegata, senza didascalie, e con delle riflessioni raccontate; una partitura variopinta, rumori suoni che se va bene confluiscono in una ninna nanna. Poi a conti fatti, non lo so se sono riuscito ma di sicuro ne sono successe di cose nella mia vita da scrittore, tante di quelle cose che mi sono reso conto che la narrativa forse non fa per me.
Ho esordito con La città distratta, una strano reportage narrativo su Caserta. L’editore mi disse: «mo inventiamoci qualcosa sennò sto libro chi se lo compra». Invece andò bene. Vinsi premi e fui pubblicato pure in Lituania. Tutti dissero: bravo Pascale con i reportage, ora lo aspettiamo alla prova dei racconti. Così scrissi La manutenzione degli affetti. Tutti mi dicevamo bel titolo, ah il libro non l’ho ancora letto. Vinsi molti premi e fui tradotto anche in Lituania. Bravo Pascale con i racconti – sentii dire – ora lo aspettiamo alla prova del romanzo. Così scrissi quello che considero il mio capolavoro, un po’ come Altobello sulla soglia, il racconto che fu stracciato da Goffredo Fofi (e del quale non posseggo una copia, forse una ma su un floppy disk). Scrissi un romanzo: Passa la bellezza (il titolo era un omaggio a Sandro Penna). Fu un fallimento, andò male e non fui nemmeno tradotto in Lituania. Un giorno lo presentai in un liceo classico del sud. Il preside era un tipo molto retorico e del mio libro diceva che lanciava segnali Morse dal mare alla terra ferma. Alla quinta metafora di questo tipo lo guardai e vidi che aveva nelle mani il libro di uno scrittore che si chiamava come me, Antonio Pascale. Era sardo e aveva scritto un bel libro, L’isola nave e la memoria degli ultimi marconisti. Ecco il perché della metafora, cioè nemmeno era un metafora. Da questa esperienza ne ricavai una visione non edificante del mondo della lettura/scrittura, visione che col tempo, nonostante abbia scritto molti altri libri, si è rafforzata. Oggi infatti penso che scrivere sia da coglioni.
Ogni anno in Italia escono 80 mila novità. Di questi 80 mila libri solo 3 mila libri vendono più di 3 mila copie, il resto va al macero, una parte arriva in libreria e ci sta il minimo indispensabile. Solo pochi scrittori vendono bene. Tutti gli editori lamentano crisi di lettori, molti lettori forti sono morti e chissà se verranno mai sostituiti. Siccome credo che l’arte sia una delle ragioni che renda la vita degna di essere vissuta e la musica, la danza, la pittura continuano a rendermi la vita più lieta e mantengono viva la curiosità e a volte riescono a stimolarti sia felicità sia profonda malinconia che tra l’altro spesso è un buon viatico verso la felicità, siccome credo ancora in tutte queste cose, mi chiedo non solo se sia possibile creare una narrativa che riesca a mettere insieme musica, poesia, cinema e danza, rompendo i modelli narrativi tradizionali e incuriosendo il lettore ma soprattutto mi chiedo perché ho fatto lo scrittore e non il musicista, l’artista o semplicemente il lettore. E ogni santa volta che me lo chiedo penso sempre: queste cose devo scriverle (del resto chi nasce coglione muore coglione), sono ninne nanne, segnali Morse che devono partire dal mare per raggiungere la terraferma, altrimenti senza la scrittura finisce che viviamo in un mondo pacificato, senza contraddizioni e conflitti, dunque senza conoscenza: e allora che campiamo a fare senza poter leggere il mondo e noi stessi che quel mondo abitiamo?