Corriere della Sera, 25 luglio 2025
Intervista a Paola Marzotto
Il primo ricordo di sua madre Marta Marzotto?
«I suoi ceffoni con gli anelli tra le dita. Mia sorella era malata e io la innervosivo perché ero iperattiva. Peraltro lo sono rimasta: due anni fa sono andata in Antartide con l’Armada Argentina per un progetto fotografico e doveva vedermi mentre salivo e scendevo la scala dei gatti, a picco sull’Oceano».
Ceffoni a parte?
«Anche momenti molto belli, nel ‘62-’63-’64, quando vivevo in Veneto, a Portogruaro: per me era la morte civile perché non succedeva mai niente. Lei passava a prendermi e mi portava al cinema, a vedere i film degli antichi romani con la fossa dei serpenti: di notte avevo gli incubi».
Invece il primo ricordo di suo padre Umberto Marzotto?
«Teneva molto a me. Ricordo quando si sedeva al pianoforte, mi prendeva sulle ginocchia e provava a insegnarmi a suonarlo».
Fu lui a regalarle un fucile?
«Sì, un piccolo Flobert, allora usava così. Mi portarono in campagna a mirare un fagiano, qualcuno dietro di me sparò in contemporanea e lo centrò: fu il mio battesimo della caccia. Ricordo le beccacce insanguinate: per noi erano normali, oggi mi farebbero orrore».
Che rapporto aveva con i suoi fratelli Annalisa, Vittorio Emanuele, Maria Diamante e Matteo?
«Da primogenita ero legatissima ad Annalisa, che era la seconda: ho sofferto molto quando è morta. Gli altri non li ho proprio visti. Nella parte della villa con la camera da letto dei miei genitori stavano solo i figli più piccoli, man mano che crescevamo ci spostavano in un’altra ala».
Che bambina era?
«Timidissima. A Natale e a Pasqua costringevamo me e mia sorella a distribuire i panettoni e le uova di cioccolato ai figli degli operai di nostro padre, vestite come due principessine: mi vergognavo moltissimo. Quando sono andata a vivere a Roma, a 13 anni, sognavo l’anonimato, e sono riuscita a conquistarlo».
Paola Marzotto, 70 anni compiuti a maggio, è la primogenita di Marta ed è la madre di Beatrice Borromeo, moglie del principe Pierre Casiraghi. Già stilista di alta moda, attivista politica, decoratrice, ora fotografa e poetessa, ha debuttato nella narrativa per Vallecchi con Narciso perverso amore fatale, libro che non è un’autobiografia, anche se è molto difficile non riconoscere in alcuni passaggi la madre, la figlia o il figlio. «Di sicuro c’è una grande percentuale di verità in quello che ho scritto, il 100 per cento. Però non saprei dire se sono cose che ho vissuto o che mi ha raccontato mia madre o qualcun altro: io vengo dal teatro. Con questo libro volevo mettere in allerta dalle personalità narcisiste: mia madre di sicuro lo era». Ne parliamo sedute sul divano della sua casa a Milano, sotto dei bellissimi carciofi dipinti da Renato Guttuso.
L’adolescenza a Roma?
«La divido tra le due case dove abbiamo abitato: una in Passeggiata di Ripetta 22, l’altra in piazza di Spagna 66. La prima era un rettangolo rosa shocking che lei chiamava “la mia feminier”, con un enorme quadro di Schifano con dei falli e la scritta: “Congresso internazionale amanti di Freud”. C’era anche un’enorme bottiglieria con Champagne e vini che regolarmente chi entrava si portava via, facendo disperare mia madre».
Stava già con Guttuso?
«Sì, da un paio d’anni. I suoi amici li vedevamo all’Augustea: in un tavolo stavo io con i miei amici, le miei amiche la sera non potevano uscire; nell’altro i grandi, come Yevtushenko, Pasolini, Laura Betti, Melina Merkouri».
E nell’altra casa?
«In piazza di Spagna 66 ci spostammo nel 1972, quando avevo 18 anni. Mamma rimpianse molto quella casa, dopo averla venduta: nel palazzo abitava anche Keats, Shelley era in quello di fronte. Qui lei amava ricevere gli ospiti: tanti giornalisti, registi. Una sera organizzò una cena per Andy Warhol, un’altra per Martin Scorsese. Li ricordo seduti sugli scalini mentre passavano taglieri di galantine, salami...».
È vero che sua madre è stata anche la musa di Polanski?
«No, non è assolutamente vero, era troppo vecchia per lui. Però si sono frequentati in occasioni mondane, lui le regalò una giacca di Sharon Tate che conservo ancora».
Chi ha inciso di più nella sua vita in quegli anni?
«Renato Guttuso è stato come un secondo padre per me, con lui avevo veramente un legame. Lui e mia madre non si sono mai lasciati. Il caso Guttuso tra scandalo e mistero di Costanzo Costantini riassume benissimo quello che successe. Dopo la morte di sua moglie Mimise, lui fu isolato da tutti. Ma l’amore tra lui e mia madre non finì mai. Lei dopo molti anni ebbe accesso alla lettera in cui lui le scriveva: “Martina mia, perché non vieni a trovarmi?”».
Il complimento più bello che le ha fatto sua madre?
«Parlava molto bene di me con tutti, eravamo in simbiosi: mi diede il rubino di fidanzamento che le aveva regalato mio padre. Ero riuscita a diventare chi voleva che diventassi».
Avrebbe preferito fosse meno ingombrante?
«Ma no, mi rendo conto di tutto quello che mi ha trasmesso in termini di estetica e di gusto. Ho avuto una scuola molto dura, ma lei sapeva essere anche molto divertente. E soprattutto mi ha insegnato l’indipendenza: ero da sola in Argentina quando ci fu il golpe; durante lo shooting di Apocalypse Now nelle Filippine dormivo con la toupe».
E i viaggi con sua madre?
«Tanti. A Bahía affittammo una macchina, io ero giovane, e la guidò lei che non sapeva farlo. Ha perfino avuto un incidente con la Ferrari, quando aspettava Matteo».
Siete mai state in competizione per gli uomini?
«Avevamo 23 anni di differenza, praticamente eravamo come due sorelle. Quando uscivamo insieme sentivo i commenti di chi diceva che preferiva lei. Ma avevamo caratteri differenti e pubblico maschile diverso: lei arrivava sempre come una regina, urlando, chiamando per nome il cameriere. Io ero molto intellettuale, riservata. Non siamo mai state in competizione».
E invece con i suoi figli Beatrice e Carlo Ludovico che madre è stata?
«Penso piuttosto buona. Dopodiché nessun figlio sincero con sé stesso dirà mai: “Che meraviglia! Non ho subito nessun trauma...”».
Perché nel 2012 volle smarcarsi con un messaggio su Facebook dai guai giudiziari che avevano coinvolto i suoi fratelli e alcuni dei suoi cugini?
«Perché né io né mio padre c’entravamo niente e non volevo essere sputtanata per una cosa che non avevo fatto. Ho lavorato molti anni con Antonio Di Pietro, i miei figli sono gente perbene, io credo nel pagare le tasse».
Come nacque il suo rapporto con Di Pietro?
«Venni contattata da Elio Veltri nel ‘93-’94, che voleva fare il partito che poi sarebbe diventato Italia dei Valori. Nel ‘99 leggo sul giornale che sta effettivamente nascendo e chiamo Giorgio Calò, mettendomi a disposizione. Ero femminista da quando avevo 16 anni grazie a mia madre, a Dacia Maraini, a Lina Wertmüller, a Piera Degli Esposti, alle donne che frequentavano la nostra casa. Insomma, mi cooptano per le pari opportunità nel direttivo della Lombardia».
Sente ancora Di Pietro?
«No, non ci siamo mai frequentati fuori dalla politica. Ma ne conservo un bellissimo ricordo».
Come mai ha scelto di vivere a Punta del Este, in Uruguay?
«Il mio amore per il Sudamerica nasce da bambina, quando collezionavo francobolli e mio padre mi portava le buste dalle quali, sotto il vapore, estraevo la testa di Evita Peron. Durante la Seconda Guerra dell’Iraq dissi: “Ma è possibile che nessuno abbia una casa fuori dall’Italia?”. La vedevo così esposta... E così ho acquistato la prima casa lì: adesso è un compound».
Che lavoro fa, oggi?
«Mi definisco un’attivista ambientale. Ho fondato la Eye-V Gallery, un collettivo di artisti che si dedica alla ricerca della natura in maniera mistica e profonda. La mia mentore è stata Paola Ruotolo. Abbiamo esposto anche al Palacio Libertad e all’Ecoparque di Buenos Aires».
Chiudiamo con sua madre. Tornasse indietro?
«La sceglierei di nuovo».