il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2025
“Sono profumata di te”. Tutte le donne di Carducci: 30
“Il mi’ Giosuè, poverino, ha consumato la gioventù curvo, giorno e notte, sui libri, senza conoscere l’amore. Così, ora, quando gli capita a tiro un po’ di ciccia disposta al letto si rifà con tutti gli arretrati”. Giosuè è Carducci, il poeta del Risorgimento, mentre il ricamo sarcastico sulle sue scappatelle è firmato dalla moglie Elvira Menicucci, una sua cugina fiorentina sposata nel 1859.
Carducci è stato per lungo tempo il vate dell’Italia unita, uno di quegli autori imprescindibili da portare alla maturità con quelle Odi barbare a celebrare bellezze, tradizioni popolari ed eroi della penisola. Nato nel 1835 e morto nel 1907, oggi accumula sempre più polvere, decisamente ridimensionato. Il Nobel non basta a salvarlo dal revisionismo critico: retorico, banale, impoetico. Nell’immaginario collettivo sopravvivono tuttavia versi celebri come “La nebbia agl’irti colli/ piovigginando sale” da San Martino o “L’albero a cui tendevi/ la pargoletta mano” da Pianto antico (dedicata al figlio Dante morto a soli tre anni). Il poeta toscano non si salva nemmeno sul piano umano. Chi parla di caratteraccio, chi di spocchiosa alterigia. Docente all’Università di Bologna fu severo e insopportabile anche con l’allievo prediletto Giovanni Pascoli. Se di cattivo umore bocciava tutti senza pietà. Sincero comunque nel ritrarsi “superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo”. Amante della buona tavola – famose le sue ribotte – e grande bevitore di vino al punto che si faceva pagare la sua collaborazione a certe riviste con barili di Vernaccia.
La passione più divorante resta però quella per l’universo femminile. Tombeur de femmes, Carducci pare abbia collezionato una trentina di amanti. Ultrasessantenne ebbe una relazione con la scrittrice ventenne Annie Vivanti che lo appellava affettuosamente “orco”. Si mormora di un legame d’amicizia, non si sa quanto platonico, con la regina Margherita. Gli anti-monarchici non la presero bene, domandandosi come un fervente repubblicano del suo rango potesse “amoreggiare” con una reale di casa Savoia. Lui replicò che pure un “giacobino si inchina alla bellezza muliebre”.
La sua relazione extraconiugale passata alla storia è quella con Carolina Cristofori, segnalata a Carducci nel 1871 dalla marchesa Colombi come sua fervida ammiratrice. Il sodalizio tra i due inizia nel luglio dello stesso anno quando il poeta, sposato e padre, riceve la prima lettera di Carolina, sposata e madre. Lui è professore universitario a Bologna, lei aspirante poetessa residente a Milano. Nata nel 1837, è figlia del medico e letterato Andrea Cristofori e moglie del militare in carriera Domenico Piva. Soprannominata la “pantera” per il suo temperamento provocante, è mantovana di nascita ma milanese d’adozione. Lo scambio epistolare con Carducci si fa via via sempre più fitto e dopo un primo incontro a Bologna l’idillio sulla carta si converte in una dozzina di incontri itineranti. Si scambiano più di seicento lettere, un epistolario ritenuto tra i più memorabili dell’Ottocento. I colleghi universitari vedono Carducci ogni giorno seduto ai tavolini del Caffè dei Grigioni a scrivere missive scolandosi un bicchiere di grog dietro l’altro.
Guido Davico Bonino ne ha offerto una nutrita antologia nel suo Amarti è odiarti (Archinto, 1990). Fior da fiore: “Ti mormoro gemebondo all’orecchio: Quanto ardo di rivederti!”; “Io vorrei languire ai tuoi piedi”; “Stringimi nei tuoi abbracci e inondami di baci”; “Io sono tutto profumato di te, ti sento ancora sul mio cuore, tra le mie braccia”; “Mi vien voglia di baciarmi per ribaciare i tuoi baci e i tuoi amplessi”. Carolina è trasfigurata nei suoi componimenti in “Lidia” come in Alla stazione in una mattina d’autunno: “Tu per pensosa, Lidia, la tessera/ al secco taglio dai de la guardia,/ e al tempo incalzante i begli anni/ dai, gl’istanti gioiti e i ricordi”.
Un giorno, nel salotto milanese della contessa Maffei, Carducci rischia di venire alle mani con un altro grande nome della letteratura italiana: Giovanni Verga. Lo scrittore siciliano, reduce dal successo di Storia di una capinera, in posa da seduttore liscia la mano di Carolina azzardando un paragone con la morbidezza del viso del suo bambino, Gino Piva, partorito nel 1873 (pare figlio dello stesso Carducci, frutto segreto della loro relazione). Anche Verga si è dimostrato uomo di grandi passioni, collezionista a sua volta di numerose amanti. Carducci si infuria per questo innocente “tradimento” al punto da inviare alla sua amata Carolina una lettera di contumelie contro Verga: “Ah stupida bestiola d’un falso cavaliere e in tutto imbecille uomo!… Un uomo che mette una brutta corona baronale su una carta da visita e che si lascia dare falsamente del cavaliere e che scrive un romanzo epistolare; e con tutto questo è siciliano, non può essere altro che un vigliacco ridicolo parvenu”. Una passione durata un decennio, che si conclude con la morte di Carolina Piva nel 1881.
La moglie Elvira, ben consapevole dell’infedeltà del marito, confidò alle amiche: “Come se qua a Bologna non ci fossero abbastanza puttane”.