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 2025  luglio 24 Giovedì calendario

Intervista a Luca Barbarossa

Luca Barbarossa, ha sempre voluto fare il cantautore?
«Da bambino volevo fare l’idraulico: ero affascinato dall’acqua e poi... avevo capito tutto! Alle elementari, ho avuto una bravissima insegnante di canto che ci faceva studiare l’Opera. E così, da piccolo, cantavo la Norma».
L’autore di Via Margutta si racconta con ironia e umiltà a Livigno per La Milanesiana ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, che si è messa in testa di portare letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia, teatro, diritto, economia, sport e fumetto in giro per l’Italia. Il pubblico apprezza, gli artisti rispondono con generosità.
La prima chitarra chi gliela regalò?
«Mio padre: era una Tre Quarti, quelle più piccoline che usano i bambini. È rimasta un po’ ferma lì per anni. Poi, quando ho cominciato ad apprezzare Battisti e le canzoni di fine anni ‘60, inizio ‘70, ho chiesto agli amici di mia sorella più grande di insegnarmi a fare gli accordi. E lì ho capito l’importanza della chitarra».
La prima acustica?
«Me la sono comprata da solo con le mance raggranellate a Londra quando facevo il cameriere: praticamente è stato il mio Conservatorio».
Quante chitarre ha oggi?
«Una quindicina, per la gioia di mia moglie. Le tengo tutte in una stanza, rigorosamente nel fodero».
I suoi idoli erano Bob Dylan, Bing Crosby, gli Eagles, Simon & Garfunkel: avevano tutti sperimentato le droghe. Lo fece anche lei?
«Beh, io non ho il fisico, ho sempre fatto sport. Certo, dire che negli anni ‘70 non ci siamo fumati qualche canna sarebbe poco onesto. Erano anni così, purtroppo ho visto tanti amici perdersi. Il “mercato” era cinico: quando decideva di togliere le droghe leggere per vendere le pesanti, in giro trovavi solo quelle. Ignoravamo gli effetti collaterali, non sapevamo nulla».
Le hanno dato l’ispirazione che cercava?
«Mai. Il processo creativo è fatto al 10% di inspiration, ispirazione, e al 90% transpiration, fatica e sudore. Il nostro lavoro passa per lo studio, l’impegno, la costanza».
Nel bel libro scritto per La nave di Teseo, «Cento storie per cento canzoni», racconta di quando Mogol scrisse «Emozioni» sulla Giardinetta, mentre accompagnava in vacanza la famiglia. Qual è stata la sua Giardinetta?
«L’altro giorno sono andato a mangiare in una trattoria a Roma che ha conservato pezzi delle tovaglie di carta sulle quali scrivevo i miei testi. Dopodiché, ho scritto sui banchi di scuola Roma spogliata, la mia anti-Roma capoccia, che in origine si chiamava Roma puttana».
A proposito di «correzioni», cosa pensa del politicamente corretto applicato all’arte? Oggi un testo come «Colpa d’Alfredo» di Vasco Rossi andrebbe cambiato?
«Io ho un grande rispetto per l’evoluzione del linguaggio, certi termini che sono offensivi è giusto non usarli più. Ma credo che nell’ambito dell’arte debba essere lasciata sempre la possibilità di esprimersi. Spesso il pubblico mette in atto un processo di identificazione, ma cantare una cosa non significa averla fatta o pensarla: io ho cantato lo stupro, per dire».
È meglio non conoscere i propri idoli, ma la sua vita è piena di eccezioni: se le dico Bruce Springsteen?
«Mi volle conoscere lui a Sanremo nel 1996, perché avevo difeso la sua scelta di andarci: per i puristi non doveva. E mi invitò al suo concerto a Roma. Pensavo l’avesse detto così per dire, e invece poi mi chiamò Susan Duncan-Smith, della Sony Music: addirittura mi invitò a raggiungerlo dopo il concerto. Lo considero un grandissimo privilegio».
E di Franco Battiato che ricordo ha?
«Era un uomo dolce e generoso, mi prestò la sua casa a Berlino per un mio compleanno. Una volta venne a Radio2 Social Club per promuovere un suo lavoro molto serio, ma finì che scherzammo e ridemmo tutto il tempo e non parlammo del disco!».
Cantare per lei è sinonimo di impegno: si è esibito più volte in carcere. Ricorda la prima volta?
«Sì, ero un ragazzo. Ero andato all’istituto minorile di Casal del Marmo e appena vidi miei coetanei in carcere per reati gravissimi, non riuscii a cantare. Chiesi scusa e dissi che prima volevo parlare un po’ con loro. Soltanto dopo riuscii a riprendere la chitarra, ma non salii sul palco, restai lì in mezzo».
L’intelligenza artificiale, che la Milanesiana quest’anno declina in tanti modi, è amica o nemica della musica d’autore?
«Nemica è la superficialità. Noi siamo cresciuti con la musica che ha lasciato un segno nel tessuto sociale. Oggi è perlopiù intrattenimento e potresti perfino non accorgerti se qualcosa è stata scritta con l’intelligenza artificiale. Però non penso che l’AI possa scrivere canzoni come Blowin’ In the Wind o La donna cannone. Dopodiché, se usata in modo intelligente, può essere un aiuto».
Chiudiamo con il tennis, altra sua passione. Tra un doppio con Sinner e un duetto con Bob Dylan cosa sceglie?
«Faccio un doppio con Dylan. Sono sicuro di vincere».