la Repubblica, 24 luglio 2025
Quel ramoscello d’ olivo che annuncia la civiltà
«E la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo» (Genesi 8,11). Così Noè comprende che le acque si sono ritirate dalla Terra dopo il Diluvio. In questo modo nel Grande codice entra in scena l’ Olea europaea, nome assegnato da Linneo (1753) alla pianta il cui frutto è detto drupa, composto da una parte centrale legnosa circondata da una parte esterna carnosa. Dotata di fiori piccoli, riuniti in corimbi presenti in tutta la chioma, l’Oleaeuropaea appartiene alla famiglia delle Oleacee, e insieme con il grano e la vite, nota Fernand Braudel, descrive i confini del territorio che chiamiamo Mediterraneo. Stando allo storico francese l’olivo ha contribuito in modo decisivo alla vittoria dell’uomo in un ambiente fisico in parte ostile e avverso. L’olivo, insieme all’olio che deriva dal frutto, è senza dubbio un dono degli dèi. Nella Bibbia ebraica figurano decine e decine di citazioni dell’ Olea europaea; la stessa Terra promessa da Jahvè al proprio popolo è «un paese fertile, di frumento, di orzo e di viti, di fichi e di melograni, paese di ulivi, di olio e di miele» (Deuteronomio, 8, 8). Nel Nuovo Testamento è la pianta che funge da scenografia vegetale all’agonia e alla preghiera di Gesù nel giardino del Getsemani, il cui nome ricorda la presenza lì di un frantoio. In un passo di Mediterraneo. Un nuovo breviario, Predrag Matvejević scrive: «l’oliva non è solo un frutto: è anche una reliquia». Le antiche religioni hanno introdotto l’olio nei loro riti. E non sono solo le due religioni del Libro ad avere a cuore l’olivo.
Come dimenticare il dono che Atena conferisce all’Attica piantando sull’Acropoli la prima pianta e dando il proprio nome alla città che nasce, vincendo la gara con Poseidone? Albero sacro per eccellenza, nei saccheggi di Atene gli alberi sono risparmiati dalla furia degli Spartani, ma poi vengono abbattuti e bruciati dai Persiani; e tuttavia questa pianta longeva e maestosa rispunta con nuove radici e nuove chiome. Da dove proviene? Dalla Mezzaluna fertile, scrivono i botanici, diventando ben presto la pianta prediletta della nuova civiltà contrapposta alla quercia che, come ricorda Giuseppe Barbera, appartiene invece alla mitica Età dell’oro, quando anche gli uomini mangiavano le ghiande. Nel II millennio a.C. l’olivo arriva in Grecia, mentre nel VI secolo a.C. è ancora sconosciuto in Italia, Spagna e in Africa, come scrive Fenestella, annalista e storico dell’età di Augusto e Tiberio, affascinato dai particolari. A questa altezza il ramo di olivo, quello recato dalla colomba, è già diventato un simbolo di pace. Sarà quindi Columella nei suoi dodici libri del De re rustica, salvati da solerti umanisti visitatori di biblioteche in lontane abbazie, a esporre i primi sistematici rudimenti dell’agricoltura e delle tecniche olearie. Ma esiste anche l’antecedente dell’olivo: l’oleastro (latino oleaster), «un frutice spinoso, i cui frutti aspri e piccolissimi danno pochissimo olio» (Jacques Brosse) per lo più amaro, buono per i preparati medicinali. È l’olivo non innestato, il lato selvaggio di questa pianta, che continua a ricordare al nobile olivo la propria indomita origine. La civiltà dell’olio s’instaura perciò rimuovendo e superando il lato primitivo di questa pianta, la quale possiede un tronco nodoso, deforme come «quello di un reumatico» (Brosse). Come si sa è difficile stabilire l’età della singola pianta d’olivo attraverso la conta dei suoi anelli di crescita.
Quest’albero, ricorda Barbera, è composto di «ammassi di gemme che formano forme globose conosciute come ovoli che si trovano alla base del tronco (il pedale o ciocco)», e che danno vita a sempre nuovi tronchi, «fino a sostituire quello originario che nel frattempo, nel corso dei secoli degradato dalle carie del legno, arriva a scomparire». L’elemento selvatico permane dentro la pianta, così che, ha scritto Vincenzo Consolo, il bestiale e il coltivato, il rozzo e il domestico, nascono dal medesimo tronco pur avendo un differente destino. In un suo libro, L’olivo e l’olivastro (1994), lo scrittore elegge questa doppia pianta a simbolo dell’anima siciliana. In esergo Consolo cita un passo di Omero, quando Odisseo s’infila tra due cespugli «nati da un ceppo, l’uno di olivo e l’altro di oleastro», forma palese della stessa doppia identità dell’eroe. La pianta addomesticata dai contadini produce un piacevole frutto che è tre cose insieme: un cibo, un medicinale, un paesaggio. Quello italiano fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in particolare quello meridionale – l’olivo ama il sole e non ha bisogno di molta acqua –, era un «paesaggio promiscuo», come lo definisce Barbera. Ogni contadino, proprietario, mezzadro o fittavolo che fosse, aveva bisogno di una produzione diversificata, per cui vicino all’olivo c’era la vite, e tra un filare e l’altro si coltivavano i cereali – orzo e frumento –, e un legume come la fava, il trifoglio per le bestie, le piante da orto. Nella triade alimentare c’erano pane, olio e olive, per secoli e secoli base del pasto contadino. Il paesaggio era allora composto da un variare di verdi di differenti gradazioni, mescolati con i gialli e i rossi delle piante orticole, e le belle macchie dei colori stagionali. L’avvento della monocultura e l’intensificazione delle tecniche di coltivazione hanno ridisegnato le colline toscane e i pianori pugliesi, dove l’ordine militare delle file parallele, o la loro disposizione a scacchiera, riscrive lo spazio, com’è avvenuto per le viti piantate nelle colline del Piemonte, forme schematiche che neppure in un quadro di Mondrian risultano così precise, un affascinante puzzle di filari incolonnati, a cui anche gli olivi, emendati dalla loro natura selvatica, si sono assuefatti con secolare tolleranza. Aldous Huxley, narratore distopico e sperimentatore di nuove percezioni, così riassume negli anni Trenta del secolo scorso la geografia dell’olivo: «Il Mediterraneo giunge fino agli orli della fascia desertica, e l’olivo è il suo legno: il legno del territorio della chiarezza solare che separa la tetraggine dell’equatore da quella del nord. Si tratta del simbolo della classicità in mezzo a due romanticismi». Meglio di così non lo si poteva dire.