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 2025  luglio 24 Giovedì calendario

C’era una volta Tuvalu

«A casa non ci sono più opportunità», racconta Frayzel Uale, diciottenne originario di Tuvalu che si è già trasferito in Australia. «A Tuvalu l’acqua sale, le strade si coprono, i raccolti spariscono. È ancora casa mia, ma non ci vedo più un futuro». Ha lasciato lo Stato insulare polinesiano con un visto studentesco, che sta per scadere. Oggi è uno degli 8074 cittadini tuvaluani (su 10.643) che hanno fatto domanda per il visto permanente offerto dall’Australia. Il bando si è chiuso il 19 luglio: i posti disponibili, per il primo anno, sono appena 280. Estratti a sorte. Una lotteria per la sopravvivenza climatica.
Trattato con l’Australia
Il programma fa parte del trattato Falepili Union, firmato lo scorso anno tra Tuvalu e il governo di Canberra: un accordo unico al mondo, che riconosce esplicitamente il cambiamento climatico come causa di migrazione umana. Accanto al percorso migratorio, il trattato prevede aiuti allo sviluppo e una clausola difensiva, che vieta a Tuvalu di stringere accordi militari con altri Paesi. Per i critici, come l’ex premier tuvaluano Enele Sopoaga, è un modo con cui l’Australia “arma la vulnerabilità di Tuvalu a proprio vantaggio”. Per molti altri, è una via d’uscita. E una corsa contro il tempo per un destino già segnato.
Due metri di altezza
Perché Tuvalu potrebbe essere il primo Paese a scomparire per colpa della crisi climatica. Si tratta di un micro-stato dell’Oceano Pacifico, tra le Hawaii e l’Australia: nove atolli corallini larghi pochi metri e lunghi qualche chilometro (superficie totale 26 km²), dove il punto più alto del territorio naturale misura appena 4,6 metri sul livello del mare. La media si ferma attorno ai due metri. Secondo le previsioni scientifiche più caute, entro fine secolo molte porzioni dell’arcipelago saranno inabitabili per la risalita del cuneo salino (che invade le falde di acqua dolce e rende impossibile anche l’agricoltura), le mareggiate e l’innalzamento costante delle acque.
Non è un film catastrofico hollywoodiano, dove tutto succede all’improvviso. Qui la scomparsa della terra è lenta ma inesorabile. Già oggi, si fatica a coltivare il taro e la cassava, le piante tradizionali. L’acqua dolce nei pozzi scarseggia, le fondamenta si corrodono.
Record dopo record
Dal 1900 al 2020, il livello medio globale dei mari è aumentato di circa 20–24?cm, con un aumento progressivo negli ultimi decenni. Nel 2024, anno più caldo mai registrato, l’aumento medio è stato di 5,9 millimetri, il livello più alto da 1500 anni (dati Nasa). Gli oceani si innalzano perché si sciolgono i ghiacciai, ma anche – e soprattutto – perché l’acqua più calda occupa più volume. Si espande. Anche nelle migliori previsioni, per la fine del secolo potremmo registrare 30 centimetri in più rispetto a oggi (dati Ipcc, scenario RCP2.6). Più 75 cm se continuiamo a emettere così tanti gas serra in atmosfera. In altre parole: per il 2100 il 95% di Tuvalu sarà sommerso nelle fasi di alta marea.
«Certi giorni l’oceano entra in casa», racconta Lisepa Paeniu, giurista tuvaluana oggi in Nuova Zelanda. Anche lei ha partecipato al bando con il compagno e i due figli: «Le nostre radici sono nella terra, ma se la terra scompare, cosa resta?». Eppure non tutti sono pronti ad andarsene. La ricercatrice Taukiei Kitara invita alla cautela: «C’è chi considera l’esodo un atto inevitabile. Noi pensiamo che pianificare per ogni scenario sia una forma di resistenza. Non abbiamo ancora abbandonato la speranza».
Il destino delle isole
Tuvalu non è sola. Tra i piccoli stati insulari più esposti ci sono Kiribati, le Isole Marshall, le Maldive, le Seychelles, le Figi. Tutti luoghi dove le emissioni di gas serra sono pressoché irrilevanti, ma le conseguenze del cambiamento climatico sono devastanti. Le loro richieste di giustizia climatica, però, si scontrano con la lentezza delle grandi potenze. E con una geografia inaccettabile per il diritto: i “rifugiati climatici” non esistono ancora a livello giuridico internazionale. Chi fugge da un’alluvione non ha le stesse tutele di chi fugge da una guerra.
Secondo Andrew Harper, consigliere speciale per l’azione climatica all’Unhcr, il trattato Falepili «è un precedente importante, un modello da studiare».
Copia digitale dello Stato
Nel frattempo, Tuvalu si sta digitalizzando. Letteralmente. Nel 2021, durante la COP26, il ministro degli Esteri Simon Kofe si presentò in diretta video in giacca e cravatta e pantaloni corti, nell’acqua fino alle ginocchia. L’immagine fece il giro del mondo. Fu lì che annunciò il progetto della Digital Nation: una replica digitale del Paese da costruire nel metaverso. Un archivio online del patrimonio fisico e culturale del Paese. Una nazione virtuale per sopravvivere alla scomparsa fisica. Da allora, il governo ha iniziato a scannerizzare gli atolli con droni, raccogliere testimonianze orali, salvare mappe catastali, cartografie antiche e canzoni della tradizione. Persino la Costituzione è stata ricreata in blockchain, un complesso sistema informatico che ne garantisce sicurezza e protezione. Il progetto si chiama Tuvalu National Digital Ledge. Un’Arca di Noè digitale.
Macchina del tempo
C’è chi lo considera un esercizio inutile, chi lo legge come un gesto disperato. Ma per molti abitanti è una forma di dignità. «Non possiamo mettere la nostra identità in valigia – ha detto il diciottenne Frayzel dall’Australia – Ma possiamo almeno salvarne la memoria».
Tuvalu è minuscola, ma racconta qualcosa di gigantesco. È un mondo in miniatura, un presagio del futuro. Le città costruite sull’acqua – Venezia, Miami, Giacarta, New Orleans – si affacciano sullo stesso probabile destino. Solo che Tuvalu è arrivata prima. I sommersi oggi sono loro, un giorno potremmo essere noi. Ci salveremo? —